Tutte le campane della storia toscana
Metropoli, 01-04-2008, Sergio Di Battista
Giorgio Batini racconta le suggestive pagine di storia accompagnate dai loro rintocchiTra le cose che il mondo moderno ci ha rubato c’è il suono delle campane. Giorgio Batini, per il quale l’ultimo libro non è mai l’ultimo, con il puntiglio del vecchio cronista che accompagna lo scrittore, è andato ad esplorare non tanto l’aspetto musicale quanto le storie spesso curiose nascoste in ogni bronzo di campanile. E ne ha trovate, dalla campana mandata in esilio a quella costretta a un lungo silenzio punitivo per finire all’abbattimento di un campanile in segno di rappresaglia. A parte Hemingway che suggerisce il titolo del libro (“Per chi suona la Toscana”, edizioni Polistampa, 265 pagine, 13 euro), la frase più nota rimasta nel lessico quotidiano è quella che tutti abbiamo studiato a scuola, pronunciata dal gonfaloniere Pier Capponi in faccia all’imperatore Carlo VIII: «Se voi suonerete le vostre trombe, noi suoneremo le nostre campane». Minaccia che provocò un frettoloso dietro-front dei francesi. Batini si domanda quali campane avrebbero fatto sentire i loro rintocchi in tutta la città. La campana del Capitano, posta sulla torre degli Amidei, che richiamava la milizia cittadina e quella della torre della Castagna, dove si radunavano i Priori delle Arti e la “Trojana” della torre d’Arnolfo e la grande campana di San Marco per finire alle campane della Badia fiorentina che già quasi due secoli prima erano state protagoniste di fatti descritti nelle cronache del Vasari: per protestare contro le eccessive tasse, i monaci avevano suonato a martello e per punizione il Comune aveva fatto abb
attere il campanile (poi ricostruito). Non avrebbe suonato, contro le truppe di Carlo VIII, proprio la campana di guerra, la leggendaria Martinella, già finita, si racconta, in mano ai senesi dopo la battaglia di Montaperti. Un’altra “martinella” - che oggi è custodita nel museo dei cimeli al Forte dei Marmi – ha forse la storia più straordinaria di tutte. Risale al Quattrocento, quando si trovava nel duomo di Seravezza, dove un giorno capitò la soldataglia mercenaria del capitano Astorre Gianni. Nessuna paura, erano alleati. Poi il capitano fece suonare la campana per chiamare a raccolta la popolazione. In realtà era un trucco: riempita la chiesa i soldati sbarrarono le porte, vi chiusero dentro gli uomini e fecero uscire le donne. Fuori, nel paese cominciò un’orgia con ripetute violenze sessuali su spose e fanciulle. Qualche giorno più tardi cacciati i mercenari dalle truppe fiorentine, accadde un fatto irragionevole: i paesani se la presero con la “campana maledetta” che li aveva chiamati a raccolta, la tolsero dalla torre, la coprirono di sputi, la frustarono e la gettarono nel fiume Versilia. Ma non è finita qui: dopo qualche anno la campana fu ripescata e collocata nella torre di San Lorenzo, in seguito passò di mano in mano finché nel 1930 alcuni studenti se ne impadronirono per una festa goliardica. Abbandonata sulla spiaggia, fu notata da Curzio Malaparte, che se la portò nella sua villa del Forte. Solo in seguito fu convinto a restituirla al Comune. Che le campane abbiano un’anima ovviamente è una metafora eppure ci sono altri casi storici nei quali vengono incredibilmente t
rattate come esseri umani. È accaduto anche a Firenze verso la fine del quindicesimo secolo, quando il contrasto tra i sostenitori dei Medici e quelli di Savonarola era più infuocato. Un giorno di aprile il convento di San Marco fu preso d’assalto da una folla avversa al Savonarola. I frati chiesero aiuto suonando a martello la campana detta “la piagnona” (perché scandiva i rintocchi in occasione di qualche morte importante) ma poiché nessuno accorreva furono costretti a difendersi a colpi di fiaccole e crocifissi fino alla resa e alla consegna del Savonarola. In seguito i loro nemici, gli “arrabbiati”, se la presero con la campana che aveva lanciato l’allarme, la tirarono giù dal campanile, la coprirono di insulti e – colmo dei colmi – il Gonfaloniere di Giustizia decretò che venisse inviata al confino per cinquant’anni. Così la Piagnona, su un carretto trainato da un asino, attraversò la città, coperta di insulti e di frustate, fino al campanile di San Salvatore a Monte. Qui restò dieci anni, tornò a San Marco, fece sentire ancora la sua voce squillante, finché qualche crepa non l’obbligò a fermarsi. Oggi è a terra, su un treppiede del chiostro del convento.Lunghi silenzi dopo i rintocchi che hanno accompagnato vicende umili e grandi. La storia della “Smarrita” che indicava la giusta via ai pellegrini sulla Francigena, quella delle campane di Bargecchia che ispirarono a Puccini le note della Tosca, le campane che scacciavano i fantasmi, allontanavano la peste, regolavano i ritmi della giornata. Erano l’“orologio della campana”.