Cabianca e la civiltà dei Macchiaioli
Exibart, 20-06-2007, ––
Le sale di Palazzo Coelli a Orvieto sono protagoniste di una meritata retrospettiva dedicata al veneto Vincenzo Cabianca (Verona 1827 - Roma 1902), uno dei principali protagonisti del movimento dei Macchiaioli. La mostra -curata da Francesca Dini- presenta una lettura tout court dell’opera dell’artista per nulla scontata, ricostruendo omogeneamente il percorso formativo e pittorico, e non tralasciando di evidenziare le diverse scelte stilistiche in seno al gruppo toscano. Cabianca giunge a Firenze nel 1853 e frequenta, inizialmente con Signorini e Borrani, il patriottico Caffè Michelangelo, discutendo con loro di arte e di politica. Firenze, che sogna per un attimo di essere capitale d’Italia, fa da sfondo alle vicende di questo sparuto gruppo di artisti, che stanno costruendo inavvertitamente le basi per una straordinaria revisione della pittura italiana. Recalcitranti ai polverosi dettami accademici, annoiati dal classicismo stantìo, vengono definiti spregiativamente nel 1862 dalla Gazzetta del Popolo ‘macchiaioli’. La pittura di “macchia”, anche un po’ figlia di quel ton gris parigino d’importazione, diverrà motivo di partenza ed appartenenza stilistica di questo grappolo di artisti. Figura fondamentale per il loro incipit fu Diego Martelli, un onnipresente tutor teorico che seppe avvicinare gli artisti alla comprensione dell’Impressionismo francese. In questa esposizione orvietana, oltre a
capolavori già noti, troviamo anche opere inedite o raramente visibili (come Marmi a Carrara Marina , del 1861, non più esposto da quasi un secolo). Nella prima sezione, accanto alle pitture di storia “alla maniera lombarda”, convivono audaci sperimentazioni della ‘macchia’ come Spiaggia a Viareggio (1865) e Un bagno fra gli Scogli (1868), risultanti dal sodalizio amicale e professionale dei Macchiaioli nelle campagne fiorentine di Piagentina. Lo splendido Ritorno dai campi (1862), anch’esso non più esposto da decenni è al centro di un corollario di scorci bucolici unici. Olio steso con pennellate corte e veloci a formare le cosiddette polpettine di colore, colori accostati in modo ardito per ottenere contrasti luminosi e tagli quasi fotografici erano le linee guida per queste impressioni dipinte. Tese fin dall’origine a fissare un istante passato ci giungono agli occhi incontaminate e sfrontate, cariche di disarmante attualità stilistica. Cabianca pellegrinò molto alla ricerca spasmodica di effetti di luce e giochi tonali, riuscendo a rubare, forse meglio di altri, irripetibili momenti di vita nei campi e istantanee di un’italianità sull’orlo di imminenti cambiamenti. Le ombre altalenanti negli stretti vicoli di Nettuno, il mistico silenzio delle chiese di Forio d’Ischia, gli infiniti toni delle terre dei campi di Montemurlo, le sabbie e le barche a riposo di Sestri Levante, l’erba c
angiante sotto ieratici cipressi nella maremma toscana, rappresentano al meglio quell’umile poetica del paesaggio tanto cara all’artista. Se nella prima fase le opere si incentrano su una fruttuosa sperimentazione della macchia, le seconde cedono la tavolozza al promiscuo acquerello, regalandoci solitari spaccati intimistici (come il celebre Nevi romane, 1893). Le colorate vedute di Venezia o le strade argillose di Palestrina sanno condividere gli spazi a disposizione coi suggestivi acquerelli densi di foschie e malinconiche nevi. Cabianca, socio fondatore della Società degli acquerellisti nel 1876, si fece notare anche da Gabriele D’Annunzio, per il quale più tardi illustrerà Isaotta Guttadauro (1886). Proseguendo verso l’ultima sezione si arriva alla magica “poesia dei chiostri” e alla serie delle “monachine”, in cui le cadenzate tonalità accompagnano egregiamente la perenne attesa delle suore, i loro segreti bisbigliati, la meditazione dopo l’orazione, lo scalpore suscitato nel convento da Il piccione morto (1863). Nel 1893 nonostante sia invalido a causa di una paralisi, Cabianca continua ad acquerellare, ricavando delicati paesaggi interiorizzati come il celebre Mattutino (1901). Morirà a Roma nel marzo del 1902, un giorno dopo il solstizio di primavera, giunto a rappresentare una realtà mediata dal sentimento e inesorabilmente legata ad una sensibilità malinconica e irrequieta.