Viaggio nella poesia pura
Avanti!, 15-03-2007, Alessandro Guerra
“Blu di Seneca”, l’ultima raccolta di Acitelli Fernando Acitelli è un poeta. Un poeta vero, non uno di quegli scrittori che crescono in laboratorio e pensano – scrivendo e mettendo insieme parole senza anima – di fare poesia. Acitelli la poesia la va a cercare, la insegue a piedi strada per strada, accapigliandosi quando non gli riesce di afferrarla. È l’emozione di questa ricerca che si coglie in “Blu di Seneca” (Edizioni Polistampa, 116 pp., 12,00 euro), l’ultima raccolta di poesie del poliedrico scrittore romano. “Una poesia è uno specchio che cammina lungo una strada alta piena di piaceri visivi. Una poesia deve cantare e volare via con te oppure è un’anatra morta con un’anima di prosa. Come un vaso di rose una poesia non dovrebbe essere spiegata. La poesia è una voce di dissenso contro lo spreco di parole e la folle pletora della stampa e ciò che esiste tra le righe”, con queste parole Lawrence Ferlinghetti spiegava cosa dovrebbe essere una poesia e “Blu di Seneca”, come dice anche Alessandro Fo nella preziosa introduzione, sembra soddisfare questi parametri del sublime. Il calcio e il dolce ricordo di un padre amato sono i punti cardinali con cui Acitelli si orienta nel suo viaggiare; perché è il tempo del viaggio, meglio, del pellegrinaggio che dà il ritmo alla composizione. Anticamente si affermò nella Chiesa cristiana la pratica della “Visita ad limina apostolorum”: ogni cinque anni i vescovi dovevano recarsi dal Pontefice a raccontare lo stato della vita della propria diocesi, sul modello di San Paolo che si era recato da Pietro dopo la morte di Cristo a descrivergli la condizione spirituale dei fedeli della propria provinc
ia e chiedere consiglio al primo apostolo. Acitelli con i suoi versi compie lo stesso viaggio, anche se accompagnato e fortificato da una religione civile che risale fino a Roma e che non si lascia vincere dall’arrivo dei santi: il passaggio dall’Impero romano al cristianesimo occulta e travisa le vie di Roma, sta a noi dunque resistere e cogliere le sfumature dell’alternarsi delle stagioni: “Mutò padrone quel marmo/ dall’Impero al Battistero/ Il marmo sfioro del Battistero/ tocco in realtà frammenti dell’Impero”. Insomma, quella di Acitelli è una “Visita ad limina antiquorum”, alle tombe dei padri romani per elaborare, nel solco del tempo, il lutto della loro distanza, e le macerie di questo presente senza “Patres”: “Collassa il muro della Decadenza,/ Aureliano muore un’altra volta./ Lì, ora sfilando, annoto che l’essenza/ del ponteggio è quest’età sconvolta”. Chi vive a Roma o chi ha minima passione per questa città, ricorderà qualche anno fa il crollo delle Mura aureliane lì dove digradano verso Porta San Sebastiano, e dove le macerie di pietre stridono ancora all’abbraccio della vile lega dei ponteggi. La calce fresca che copre ora la devastazione è lo specchietto per le allodole di un tempo che non torna, l’ingenua possanza del mito del progresso che irreggimenta la storia. Acitelli a questa sciatteria, a questo tempo di “niente” sembra non rassegnarsi. E si sottrae al doveroso cordoglio con un moto di ribellione davanti al supplizio della “parola”. Il rifiuto del lavoro, mito fondante la modernità delle macchine, coincide con la rivendicazione dell’otium, un nuovo tempo liberato e destinato al gioco, allo studio, al camm
ino incessante. Solo il contatto con gli antichi sembra placare la trepidante ricerca del tempo perduto: “Sempre festa per me, sempre tormento/ ogni giorno m’esento dal lavoro; / mi placo solo accarezzando il mento/ d’imperatori e d’altri marmi al foro”. Il moto di Acitelli non è opportunistica fibrillazione televisiva per la sorte degli antichi e cronaca da telenovela pompeiana, o qualunquistica adesione all’invettiva contro il presente. Il passato è uno scherzo che può prevedere la squadra dei sogni vincere la Coppa dei Campioni, con Caracalla, all’ala destra, mentre sulla sinistra, suo fratello Geta si divincola e va in gol. I gemelli del gol, come ben si sa, si sciolsero presto e Geta fu la prima vittima della violenza degli stadi. Acitelli costruisce con le sue prose una genealogia di probi viri non per fuggire al presente, ma per appellarsi a qualcosa che è stato e che ha vissuto degnamente. È un uso politico del passato che vale per agire il conflitto oggi, ovviamente con il necessario disincanto: le città di quarzo non si difendono coi tiratori scelti, o peggio ancora violando la natura per generare il cane killer. Basterebbero i profili di Tito e Vespasiano, imperatori voluti dalla truppa, a minacciare col loro volto antico di potenza, “a diffondere nei ladri la paura”. Per quanto appaia dolente, ogni giorno di oggi val la pena di essere vissuto e attraversato con passi lenti. La magia dell’incontro con gli antichi è sempre attuale, e non va persa la speranza di perdersi al crepuscolo di ogni giorno e vagare con amici per le campagne che costeggiano la “regina viarum”. E alla fine incontrare, inaspettato e salvifico, il paradiso terrestre.