Viaggio nella testa di Rimbaud, il rapper colto dell’Ottocento
Libero, 29-02-2024, Bruna Magi
La famiglia, gli studi, la fuga da casa, la prigione: un libro di Bernardi Guardi ripercorre la vita del furibondo ragazzino che ha inventato la poesia moderna

Scrivere l’autobiografia romanzata di un personaggio fa tendenza. Ma immedesimarsi totalmente in un’identità altrui non è scelta consueta. Questa la sensazione straordinaria che si percepisce leggendo “Io è un altro, il ragazzo Rimbaud” (Mauro Pagliai editore) di Mario Bernardi Guardi, scrittore e giornalista di appassionata trasgressione, autore fra l’altro di saggi su Borges, Nietzsche, Junger, e sui “tic e tabù della sinistra radical chic”. Quella “è”, volutamente accentata, non deriva da un refuso, anzi sottolinea il fine dell’autore, diventare Arthur Rimbaud. E contemporaneamente evidenziare la capacità del giovane poeta, morto a soli trentasette anni, di essere stato un “joker” terribile e sublime in ogni evento che lo coinvolgesse, specie con il dolore di aver visto i prussiani invadere la Francia, dopo la sconfitta di Sedan, inflitta dai prussiani a Napoleone III.
Tuffarsi nella sua vita è come tornare studenti, riscoprire i “poeti maledetti”, marchiati dallo scandalo e dal decadentismo che li aveva preceduti. Infatti l’entrata in scena di Rimbaud, Verlaine e il loro “padre” Baudelaire era una sfida alle consuetudini borghesi e alla letteratura puntellata da regole polverose, sbadigli e noia. Ma Rimbaud non immagin
ava che lui sarebbe andato ben oltre, regalando nel futuro idee a Henry Miller e Bukowski, forse influenzando cantautori, rocker e rapper dei nostri giorni, personaggi fluidi nella creatività. Ma banali e incolti, se confrontati al furibondo ragazzino Arthur Rimbaud, inventore della poesia moderna, sregolato e a volte addirittura rivoltante, ma anche dotato di una naturale eleganza che lui definiva “celtica”, con quel ciuffo biondo da angelo perduto, istintivo replicante di un piccolo Lucifero, tormentato e nello stesso tempo esaltato dalla sua anima, ma anche dall’approvazione degli insegnanti, che gli attribuivano attestati di plauso e corone di alloro per la sua bravura di studente con precoce intuito letterario.
Più di ogni altro contò il sodalizio con il professore di retorica Georges Izambard, da lui chiamato Iz, che lo avrebbe sempre aiutato nei momenti più difficili, anche in senso economico. E che lo fece uscire dalla prigione dove era stato rinchiuso, vagabondo, dopo essere scappato di casa. Terribile, la sua descrizione di quel luogo infernale, dove subì insulti, oscenità, violenze di ogni tipo da parte di poliziotti e reclusi. E ti fa pensare che gran parte dell’umanità non sia cambiata neppure oggi, nella sua crudeltà schifosa. «Io mi chiamo Arthur Rimbaud», scrive Bernardi Guardi nell’incipit, «sono francese. Nato a Charleville, alla frontiera con il Belgio, lungo le rive della Mosa. I miei antenati
erano celti, forti e fieri. Il presente non gli somiglia». E arriva subito a parlare della madre, con disprezzo e amore, perché il padre, capitano, aveva mollato la famiglia, e lei, Vitalie, avrebbe fatto crescere i figli, ma,severissima,non scese mai al compromesso di regalare una carezza ad Arthur, lui ne avrebbe sentito la mancanza per tutta la vita. Ecco come, con ironia sfacciata, Rimbaud-Bernardi Guardi immagina l’incontro di mamma e papà: «lui, borgognone di origine provenzale, ha tutta la ribalderia sessuale dei maschiacci mezzo latini che sanno di esser tali e hanno voglia di allegre vendemmie. Mentre le femminucce celtiche, soprattutto quelle seriose, spasimano di essere pigiate nei tini ma guai a dirlo». E poi continua: «Sono Arthur! Forse con dentro il cuore un pezzo della costellazione luminosa... sono Artù, il ragazzino che estrae una spada dalla roccia.... Artù, biondo, magrolino e tutto nervi, che tira fuori la spada e la roccia è morbida come il burro... Arthur, sei libero, renditene conto! E io lo dico con proterva ostinazione. Nulla è facile, ed è inutile che io faccia il reginetto della trasgressione...». Arriviamo all’opera celeberrima, “Una stagione all’inferno”, e così scrive Rimbaud: «La poesia deve ubriacare. Vaticina se è invasata, dunque parte alla ventura, perché è partita di testa. E per un po’ non torna, perché quel turbinio è un gran bel vedere. Allora diventa Sapienza».