La storia di una spia d’altri tempi
Conquiste del Lavoro, 04-11-2023, Fabio Ranucci
Quella di Harold Adrian Russell Philby, soprannominato Kim dal padre in onore di Kipling e di uno dei suoi più celebri romanzi, è la storia di una spia d’altri tempi; un aristocratico inglese, un agente segreto al servizio di Sua Maestà che scelse di abbracciare il marxismo-leninismo. Simpatizzante comunista sin dagli anni dell’università, a Cambridge, a un certo punto della sua vita decise di oltrepassare la cortina di ferro fornendo segreti all’Unione Sovietica. Morto a 76 anni nel 1988, quando il muro di Berlino, crollato definitivamente nel novembre dell’89, cominciò a scricchiolare seriamente sotto i colpi della glasnost e della perestrojka, è stato una delle personalità più intriganti dello spionaggio mondiale che ha attraversato buona parte del Novecento. Uno dei “Magnifici Cinque”, insieme a Burgess, Maclean, Blunt e Cairncross, passati alla storia come il “circolo di Cambridge”: intellettuali colti e animati da un grande spirito d’avventura, allevati negli anni Trenta nel mito progressista del socialismo e da una forte attrazione per la Russia staliniana al punto da decidere di trasmettere informazioni importanti all’Urss durante la guerra o subito dopo.
Ma è leggendo l’appassionante e significativa intervista alla moglie Rufina Ivanovna Puchova, la moglie russo-polacca scomparsa nel 2021 e che Kim aveva sposato nel ’73, proposta in un testo dal giornalista e saggista Francesco Bigazzi, ex responsabile dell’Ansa dal 1985 al 1991 e profondo conoscitore della cultura e della storia russa, che emerge il vero ritratto di un uomo disilluso il quale da tempo aveva abbandonato quelle maschere che quotidianamente era stato costretto ad indossare e la cui incredibile vita è stata fonte d’ispirazione per registi e scrittori. Meno di cento pagine che rappresentano un vero e proprio memoriale e ridisegnano un’epoca di sospetti, di fughe, quando il buio della Guerra fredda incombeva sull’Europa e sul mondo. Tempi da spy-story narrate da John le Carré, di ambientazioni internazionali relegate ormai nella memoria. Proprio come quella di Philby che la vedova ed ultima consorte, alla quale probabilmente aveva confidato tutto, ha difeso con coraggio fino all’ultimo. Quando, attaccato a una bottiglia di cognac, attendeva la sua sorte. Chi era davvero Kim Philby? Soltanto uno 007 doppiogiochista? Un uomo che “credeva in una società giusta e nel comunismo – ha raccontato Rufina – a cui ha dedicato tutt
a la sua vita. Noi l’abbiamo deluso. Era scosso e turbato fino alle lacrime quando si domandava: ‘Perché gli anziani vivono così male? Dopotutto, hanno vinto la guerra!’”.
Per ottenere una risposta, forse bisogna fare un salto indietro e tornare agli anni Trenta. A quando il giovane Kim (era nato nel 1912 in India) lavorava come informatore del Kgb da Londra. Missione che continuò a svolgere da corrispondente del “Times”. Nel 1940 seguì da free-lance la guerra civile spagnola e alla vigilia del conflitto mondiale entrò nell’MI6, l’agenzia di intelligence britannica, bruciando le tappe di una carriera difficile ma appagante grazie anche all’assegnazione di un ruolo delicato e importante: a lui venne affidato il compito di responsabile delle analisi sul comunismo, sui servizi sovietici e di agente di collegamento con gli statunitensi della Cia. Tutto ciò mentre passava i segreti al Cremlino.
Fino a quando, il 23 gennaio del 1963, durante una visita a Beirut, spacciandosi per corrispondente dei prestigiosi giornali “Economist” e “Observer”, sparì e raggiunse Mosca che, pur trattandolo con rispetto, ne seguì ogni mossa costringendolo a condurre un’esistenza isolata. Tormentata. Difficile e piena di acuti conflitti personali. Tuttavia Philby fece perdere le sue tracce e passò dall’altra parte anche per un altro motivo: capì di non avere più scampo quando ricevette la visita del suo vecchio capo ed amico Nicholas Elliott, il quale scoprì le carte facendogli comprendere che il gioco era finito per via delle prove presentate dall’agente sovietico Anatoliy Golitsyn, fuggito due anni prima in Occidente. A quel punto, non gli restò che abbandonare la moglie Eleanor (insieme quel giorno dovevano andare a un party organizzato da Glen Balfour Paul, primo segretario dell’ambasciata britannica, ma la signora Philby ci andò da sola), lasciandole un biglietto per giustificare la sua improvvisa partenza e 2000 sterline, e contattare il Kgb per chiedere accoglienza. Del resto, non si sentiva un traditore, ma una talpa fedele ai sovietici. E ricomparve sei mesi dopo, a luglio, a Mosca. Dove resterà per venticinque anni, fino alla morte.
Quell’episodio, al di là della vicenda umana di Philby, rappresentò l’inizio di una nuova era per i servizi segreti mondiali. Anzitutto, se per l’Europa c’era qualcosa di cui vergognarsi, dal canto loro gli americani scoprirono un’amara verità: i loro alleati ingle
si erano infiltrati da agenti del Cremlino. E da allora il Kgb fu ristrutturato anche grazie all’impegno e alla competenza dell’ex studente di Cambridge. E adesso il libro di Bigazzi, che si divide in tre capitoli, dalla “rabbia” iniziale all’intervista e all’importanza della figura di Rufina fino all’appendice con le biografie e una parte de “Il terzo uomo” di Domenico Vecchioni (pubblicato nel 2013 da Greco e Greco editore), riapre ferite storiche mai rimarginate. Anche per chi oggi non c’è più e gli è stata accanto nel bene e nel male, rivelando particolari della loro unione e descrivendolo come “un individuo più familiare – spiega Bigazzi – per rispondere indirettamente alle accuse più pesanti. La sua è una difesa accorata e sincera, che non si addentra sul terreno insidioso dello spionaggio, ma si concentra principalmente sul tormento interiore vissuto dall’uomo al suo fianco”. “Posso dire con certezza – afferma nell’intervista la donna –, come lui stesso mi ha confidato più di una volta, che nel suo mestiere la cosa più difficile era proprio dover vivere una doppia vita. Altro che godimento, era una sofferenza. Conoscendolo come lo conoscevo io – e io l’ho conosciuto meglio di tanti altri – lo potevo capire, era un uomo di una sincerità e onestà uniche. Non avevo mai incontrato un uomo più onesto e sincero di lui, non mi ha mai mentito, nemmeno per le piccolezze. Era molto puntiglioso. Mi dispiace che spesso a parlare di lui siano persone che lo conoscevano a malapena o non lo conoscevano affatto. Quante volte ho domandato a Kim: ‘Perché non ti sbagli mai?’. ‘Molto semplice’, mi rispondeva, ‘io mi pronuncio soltanto sugli argomenti che conosco a fondo’. Se aveva dubbi o incertezze, non si pronunciava. Diceva anzi che lo ripugnava dover apparire come un uomo infallibile e perentorio. Ciò che più lo faceva soffrire nella sua missione di agente era l’aver dovuto fare il doppio gioco. Fingere, ingannare i colleghi”. Le sue informazioni date all’Urss portarono alla morte di numerosi agenti britannici e di informatori sovietici. E mentre a Londra è stato condannato ed indicato come un traditore, in Russia, dove è sepolto, è considerato un eroe al punto che nel dicembre 2010 è stata inaugurata una targa in suo onore dal capo del servizio segreto russo nel quartier generale di Mosca. Chissà cosa ne avrebbe pensato Kim, personaggio decisamente originale e controverso.