La cultura letteraria a Firenze tra Medioevo e Umanesimo
Medioevo Latino, 01-12-2020, ––
A compensare almeno in parte, e almeno per la comunità degli studiosi, la scomparsa, sopravvenuta troppo presto, di Giuliano Tanturli, ordinario di Filologia della Letteratura Italiana nel Dipartimento di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze, giunge intestata a suo nome la raccolta anastatica di lavori personali: La cultura letteraria a Firenze tra Medioevo e Umanesimo. Scritti 1976-2016, a cura di Francesco Bausi, Anna Bettarini Bruni, Concetta Bianca, Giancarlo Breschi, Teresa De Robertis. Si tratta di ventitré saggi già editi in oltre quaranta anni di ricerca, insegnamento e promozione di iniziative accademiche, non ultima l’organizzazione, nell’ambito del Dipartimento, del dottorato di ricerca e in stretta connessione di quel Seminario di Filologia, che nella stessa sede ancora continua, intitolato adesso alla sua memoria. Ed è proprio per mantenere vivo il ricordo di un’attività tanto proficua di originali acquisizioni che è parso giusto presentarne e riunire in un’unica pubblicazione gli studi più rappresentativi, dedicati nel complesso ad argomenti disposti sulla pagina in ordine all’incirca cronologico dallo Stilnovo all’età laurenziana: due secoli densi di temi e problemi letterari che meriteranno l’attenzione di chi si occupi di filologia e critica dantesca, medievale e umanistica, e lo faccia in particolare da specialista.
Infatti, la lettura dei singoli saggi non è affatto semplice, è bene darne subito avviso
. La lingua di Giuliano Tanturli è ostica e impervia, refrattaria alla scorsa veloce, non solo per il tecnicismo della disciplina. In effetti se, come sostiene Nietzsche, la filologia è l’arte che insegna a leggere lentamente, l’approccio paziente è spesso esigenza comune a oggetto e strumenti critici: gli studi stessi su testi e stemmi, per una sorta di contiguità, se non di sovrapposizione metaletteraria. Qualcosa di simile accade nella presente miscellanea, che in più adopera una scrittura arcaizzante per vocabolario e costrutti sintattici del toscano colto, sebbene spesso prossimo al parlato, quello almeno di una volta: frequenti (non sempre limpide) ellissi, costruzioni impersonali o inversioni nell’ordo verborum; usi lessicali per lo più ignoti fuori dalla Tuscia (e ormai anche dentro, almeno per le generazioni più giovani) con espressioni avverbiali come «punto» o «di  molto» e verbi come «arrabattare», «garbare» e addirittura «disgarbare»; grafie poco comuni, quali «Vergilio», «Restoro d’Arezzo» o «quistione», ma soprattutto l’autentica sphragis del verbo «resultare», che ripetuto in molteplici forme flesse, perfino nei suoi derivati (es. il sostantivo «resultato») fornisce la testimonianza piena di come l’intera veste linguistica sia il frutto di una precisa e consapevole, ostinata scelta stilistica, evidente come tale non solo per l’impiego insistito e ribadito, ma in particolare da passi come il seguente,
a p. 209, dove alle forme più ordinarie dell’italiano, quello dei luoghi citati da lavori altrui, a breve distanza si alternano i toscanismi arcaici (o gli arcaismi toschi): «Ma il fatto è che in diversi casi non di correzione si deve parlare, ma di collazione, come, difatti, il Lippi stesso fa, quando parla di periodi di ?1 (e li riporta) “in cui risultano sovrapposte le traduzioni della red. A e della red. B”. Ma perché resultano sovrapposte?». Non disgarberebbe, come avrebbe detto Tanturli, definire il suo modo di scrivere «sallustiano», e anzi paragonarlo alla prosa di Tito Livio con la differenza però che rispetto all’enigmatica patavinitas, la sua fiorentinità appare chiara a misura delle riconoscibili, note peculiarità vernacole. È infatti, a ribadire certa continuità di forma e contenuto, il volgare toscano, e un volgare già ritenuto forte di radici e propaggini secolari assai prima, ma soprattutto dopo (e nonostante) la proposta del Bembo, il reale protagonista di una vicenda culturale unitaria qual è quella che la miscellanea, giusta il titolo scelto a proposito, riconosce travalicare partizioni spesso troppo rigide di tempo e ambiti linguistici. Alla diglossia, intesa come fluida osmosi con il latino, sfuggono solo pochi fra gli autori esaminati, e per quei pochi, come Guido Cavalcanti, si pone prima di tutto il problema del disdegno per l’idioma classico, o per metonimia verso il suo maggiore poeta.

Roberto Angelini