Da Budapest all’Italia l’epopea del professor Ferenc
Il Buongiorno, 26-06-2020, Angelo Ricci
Che strano paese L’Ungheria. Ai tempi del socialismo reale veniva definita come la baracca più allegra del campo di concentramento sovietico. Uno dei nomi maschili più diffusi è Attila, perché è qui tra queste pianure che pose il suo campo, Il Ring. Ma dagli studi condotti da Luigi Cavalli-Sforza sul Dna degli ungheresi non è emerso un briciolo di sangue unno. Inoltre la loro lingua è letteralmente un’isola nella Mitteleuropa, imparentata semmai con il finlandese. Esce ora questa monumentale opera per i tipi delle Edizioni Polistampa, autore il giornalista Riccardo Catola, Chiamatemi Ungar, da Budapest all’Italia guerre, amori e rivoluzioni dell’esimio profugo Professor Ferenc, Csikusz per gli amici. Profondissima e bellissima, la prefazione di Franco Cardini.
Difficile è recensire quest’opera. Saggio storico? Autobiografia e/o biografia alla Jorge Luis Borges? Romanzo verità? Finzione reale alla Roberto Bolaño? Come nell’immensa opera di Elias Canetti, la sua autobiografia divisa in diversi volumi, un io narrante che si fonde magistralmente con i personaggi e la storia, racconta, unisce pubblico e privato, come Omero narra delle guerre e dei sentimenti più profondi. Un unghere
se che diverrà clinico di fama, terminando la sua vita in Italia, attraversa il secolo breve, il Novecento, affollatissimo di personaggi che appartengono alla sua vita e altri che appartengono alla tragedia politico sociale di quel secolo.
Transeitania e Cisleitania, la prima divisione che il 1848 ungherese impose agli Asburgo, dando vita alla Monarchia Austro-Ungarica (con la riforma costituzionale del 1867 operata dall’Imperatore Francesco Giuseppe vennero creati due Stati distinti, ma uniti dal vincolo dinastico, uno al di qua, l’altro aldilà del fiume Leitha). Tale compromesso abbandonò le popolazioni slave al predominio magiaro, rivelandosi esiziale alla stessa monarchia. Lo sfondo della Belle Époque, dove Joseph Roth osservava con orrore i prodromi di quello che sarebbe accaduto ritrovandosi davanti al palazzo imperiale nel novembre del 1918 a chiedersi “e ora?”. La nascita irrefrenabile dei nazionalismi e il riprendere forza dell’antisemitismo. La ferocia della Grande Guerra dove, a detta dell’autore, i Romeni si arrendevano in interi reparti agli Austriaci per non finire nelle mani degli Ungheresi.
La fine dell’Impero fa nascere esperimenti di bolscevismo sanguinario, co
me già a Weimar, ma subito dopo negli anni Venti la borghesia consegnerà il potere all’ammiraglio Horthy, ammiraglio senza flotta e uomo conservatore. Il Paese seguirà le sorti dell’Asse hitleriano e Budapest diverrà alla fine del 1944 teatro di una sanguinosissima battaglia tra l’Armata Rossa e le Croci Frecciate, i filonazisti ungheresi di cui Hitler non si fidava assolutamente e ai quali consegnò le chiavi del governo solo prima della caduta della intera Ungheria nelle mani del soldati di Stalin. Poi il cupo cielo sovietico e la rivolta del 1956, con gli agenti della polizia politica appesi per i piedi agli alberi e arsi vivi. Descritta anche dall’inviato Indro Montanelli con un film I sogni muoiono all’alba che ebbe tra i suoi protagonisti anche Lea Massari.
Ferenc, così Catola chiama il suo io narrante, riesce a sfuggire miracolosamente a tutti questi orrori e ad approdare in Italia dove diverrà un clinico di fama e sarà anche amico di Mario Pannunzio. Chissà che cosa scriverebbe ora Joseph Roth, assiso di fronte al palazzo imperiale asburgico.
Catola è uno scrittore di razza che è riuscito in una grande impresa: unire la storia alle storie. Da leggere assolutamente.