Lo Stato di don Momigli
Corriere fiorentino, 02-02-2017, Mario Lancisi
«Sii malleabile con la gente,ma fermo nei principi .Come un sasso nello stagno», lo esortò il cardinale Silvano Piovanelli quando decise di inviarlo parroco a San Donnino, la frazione più popolosa di Campi Bisenzio, Comune che ora gli conferirà la cittadinanza onoraria.
Era l’11 ottobre del 1991 e don Giovanni Momigli aveva 41 anni e appena un anno di sacerdozio alle spalle. Era entrato in seminario nel 1984, a 34 anni, compagno di classe, tra gli altri, di don Andrea Bigalli e di don Alessandro Santoro, dopo una promettente militanza nella Cisl, di cui era diventato segretario provinciale degli edili .Una foto di quegli anni li ritrae nel palco dell’arengario, in Piazza Signoria, vestito in giacca e cravatta, accanto al segretario della Cgil Luciano Lama.
L’esperienza sindacale pesò nella scelta di Piovanelli. San Donnino in quegli anni era infatti divenuto un inferno sociale a causa della massiccia invasione dei cinesi. Nell’ottobre del 1991, quando don Giovanni entrò in parrocchia, il quartiere contava 4.500 anime, di cui 3.000 provenivano dalla Cina.
All’improvviso gli abitanti della frazione si ritrovarono senza lavoro per la concorrenza spietata e senza regole dei cinesi. Ciò provocò scontri, cortei di protesta. Furono inviate cartoline all’allora Capo dello Stato Oscar Maria Scalfaro per invocarne l’intervento. Ci fu persino chi si recò all’ambasciata della Cina a Roma per chiedere la cittadinanza in quanto si sentiva più tutelato come cinese che fiorentino. E il 25 aprile divenne la festa della liberazione. Dai cinesi.
La tensione era alta, altissima: una mattina davanti al sagrato della chiesa fu trasportata una Panda per impedire l’accesso. Si temette fosse carica di esplosivo. Timore che risultò infondato, ma la paura e l’odio crebbero. In breve, San Donnino fu ribattezzata San Pechino.
È in questo contesto che si trovò ad operare il prete-sindacalista. Che più che un sasso si rivelerà un macigno per la forte personalità, la determinazione e i mutamenti che è riuscito ad imprimere nella Chinatown fiorentina. Don Momigli si è talora sostituito
allo Stato e ha dato vita ad una molteplicità di iniziative per favorire l’integrazione tra italiani e cinesi. La parrocchia diventò luogo di incontro dei partiti e delle istituzioni .Una straordinaria esperienza raccontata dal giornalista Luigi Ceccherini nel libroLa rivoluzione di don Momigli(Sarnus - Polistampa), in cui l’autore gli riconosce il merito di aver salvato San Donnino dall’invasione cinese e di aver costruito «la via fiorentina all’integrazione». Il modello di integrazione che emerge dall’esperienza di do Momigli convince. Il prete crea spazi e regole comuni, favorisce la nascita del Consolato generale cinese a Firenze e offre servizi pratici di aiuto per cinesi spalmati in diversi territori. E da vita a Spazio reale, un mega laboratorio, da lui voluto nel 1995, che produce e fornisce servizi di utilità sociale. Dagli eventi sportivi ai convegni. Dall’assistenza sociale a corsi per l’accoglienza e l’integrazione dei cinesi. Don Momigli ci investe più di 24 milioni e «confida nella Provvidenza» per ripianare il debito. Ma la provvidenza non lo aiuta abbastanza se la fondazione che gestisce Spazio reale si ritrova in pochi anni con un debito di una decina di milioni. Conti in rosso che forse hanno pesato nel congedo, nel luglio scorso, di don Momigli dalla parrocchia di San Donnino. Il cardinale Giuseppe Betori gli ha accordato un anno sabbatico. Che il prete-sindacalista sta trascorrendo tra corsi di intercultura all’università di Sophia di Loppiano, la cittadella dei focolarini, ad Incisa Valdarno,e meditazioni sul futuro, ma soprattutto, come lui stesso ha dichiarato, sulla sua esperienza che per 25 anni ha svolto sul terreno più complicato dei nostri tempi: il rapporto con gli immigrati, le relazioni interculturali, l’integrazione.
Oggi San Pechino è tornata San Donnino (gli abitanti sono saliti a oltre sei mila mentre i cinesi scesi a mille) ma resta il finale amaro: il luogo per eccellenza dell’integrazione - Spazio reale - si porta dietro un grave fardello economico. Manie di grandezza? O aiuti promessi e non mantenuti? Chi è venuto meno agli impegni eventualmente assunti nei confronti di don Momigli?
E ancora: ci sono cui modi in cui i preti sociali costruiscono di solito la loro «missione».C’è chi discende negli inferni umani per annunciare il vangelo e denunciare le giustizie sociali. E chi ritiene, come don Momigli, funzionale alla missine pastorale anche la creazione di una grande opera come Spazio reale e non esita a farsi supplente dello Stato. Entrambi i modelli sono rispettabili. Però c’è chi si interroga nella Chiesa se il suo ruolo debba essere, in talune circostanze, anche quello di supplire alle carenze dello Stato e di mediare tra le istituzioni e i partiti (nella prefazione al libro Spini ricorda la sua riluttanza da sottosegretario agli interni a rispondere alla convocazione di don Momigli per una riunione a San Donnino). C’è da chiederci: è questa la missione del prete? Va detto che l’attivismo di don Momigli è sempre stato in sintonia con la linea pastorale di Piovanelli, che lo ha seguito quasi da padre nei percorsi cruciali della sua vita: prima in quello di farsi prete e poi nella terra di missione di San Donnino, dove l’ex sindacalista ha operato nel segno profetico di una visione di Chiesa in uscita, così cara a papa Francesco.
Al di là dei meriti sacerdotali di don Momigli resta infine una domanda fondamentale per affrontare con efficacia politica il grande tema dell’immigrazione e della conseguente integrazione. Se la pone Giovanni Pallanti sulla Nazione. Chi ha mosso i fili della regia che ha trasferito i cinesi da San Donnino a Prato?
«L’opera di don Momigli è stata meritoria, ma alla fine si è rivelato un vaso di coccio tra vasi di acciaio,cioè le carenze delle istituzioni e il potere dei cinesi», è la risposta di Pallanti al Corriere Fiorentino. Si dirà che questo non era il compito del prete e della Chiesa fiorentina.
Vero. Forse allora è più saggio, a proposito dell’esperienza di don Momigli, non parlare di «rivoluzione» e di «via fiorentina all’integrazione». Se il taglio evangelico di quell’esperienza è indiscutibile, sul piano politico dell’integrazione il discorso diventa aperto e problematico.