Fiato alla Resistenza
Cultura Commestibile, 19-12-2015, Paolo Marini
Quando uscì la prima volta, nel 1974, per i tipi della Vallecchi, il mondo aveva una faccia tutta diversa: eppure, trascorsa un’era geologica, le passioni non sono sopite. Così il racconto autobiografico dell’esperienza di Gianfranco Benvenuti (Fiesole, 1925- Roma, 1994) nelle file della Resistenza - “Ghibellina 24” (Carlo Zella Editore, 2015 - pp. 144, € 12,00) - fa da contraltare al recente “Fascista da morire” di Mario Bernardi Guardi e insieme compongono un pezzo del nostro passato, a partire dal dominante (per me, in entrambi) profilo umano e psicologico. Con la differenza che il protagonista di “Ghibellina 24” non è immaginario e la sua vita si inserisce nel flusso della storia prima ancora che egli possa rendersene conto (fu il ‘rosso’ Renato Bernini che “disinvoltamente toccandomi una spalla disse che ero uno di loro (...), aggiunse che potevo stare nella cellula, termine del quale avevo solo cognizione scientifica (...). Acconsentii come si fosse trattato di una proposta per una gita, o qualcosa di simile.” La sera del 25 luglio 1943 Gianfranco è a Compiobbi: dalla Casa del Fascio si stanno diffondendo strane, sconvolgenti voci di ‘dimissioni’ di Mussolini, nell’aria un cupo sbigottimento; torna in treno a Firenze e il giorno dopo, nei pressi di via dell’Agnolo, è sorpreso dal “primo contatto con la libertà”, sconcertante: per la “mancanza di ossessione e di incubo” e “quel canto stonato, di vera, inattesa gioia” che “esce dalle vecchie mura del rione, e stordisce” Cominciano le manifestazioni, si abbattono gli stemmi sabaudo-fascisti; il peggio, però, ha da venire. Da qui parte il racconto che il “partigiano scrittore” scandisce in 5 momenti (25 luglio &lsquo
;43 – 8 settembre ‘43 – Gli Appennini – Pratomagno e Monte Giovi – Firenze) con incedere antiretorico, nel solco della buona tradizione della letteratura della Resistenza incarnato dal capolavoro di Beppe Fenoglio (“Il partigiano Johnny”): il Ventennio ha spaccato la società “come un taglio di scure”, i fasti del regime hanno ceduto il passo alla guerra e i volti son divenuti “lunghi e bianchi di paura” perché c’è un mondo “che intorno crolla, va in rovina”, come testimonia l’immagine del maestro elementare (“fronte corrugata, volto e mani poggiati sul bastone come sotto il peso della buona fede e della delusione crollategli addosso, sedeva in disparte, lontano dalla grande carta geografica colorata, una volta impuntata di tante piccole bandierine tricolori e rosso croce uncinata spillate sui luoghi conquistati e sulla quale, aveva preconizzato la congiunzione, in India, delle forze armate italo-tedesche con quelle nipponiche”). E i due quartieri di famiglia di via Ghibellina 24, messi dall’autore a disposizione del comando militare comunista, non hanno soltanto un significato operativo: prestando il titolo al libro, essi assurgono a perno ideale della faticosa ricerca di una diversa verità sul mondo e di ciò che sarebbe stato una volta finita la guerra. Quando apprende che i fascisti sono sulle sue tracce, anche Gianfranco - come centinaia di altri  giovani - sale in montagna dove, in una continua transumanza bellica - tra fatica, fame ma anche momenti di recupero psicologico (“Allorché l’azzurro dei monti divenne una corona attorno la vasta distesa mugellana, nel silenzio assoluto di campi e di alberete, la tensione si placò in incredibile, gioioso sapore di pace”) - tutto acquista un significato
inedito (“… la vita di montagna risvegliava, in aiuto del nostro agire, istinti primordiali di adattamento e di orientamento…”/“… in quei luoghi da lupi, dove il lupo non v’era ma stava dentro altri uomini, svaniva il valore civile del tempo…”): sono qui non solo la migliore analisi ma anche i segni che danno contezza dell’uomo, prima che del partigiano/combattente. Non è un italiano impeccabile, quello di Benvenuti; a volte si fa sperimentale, segue quel filo della memoria cui le regole della lingua sottrarrebbero continuità, efficacia e, forse, senso (“Noi, agghiacciati, marmo il nostro corpo, campare mille anni quella scena resterà nel cranio, Dante Valobra, il volto chiuso e esterrefatto, ubbidì, lui staffetta, a soli gesti di mano, curvo partendo verso il comando di compagnia oltre i castagni immoti e lucidi nel primo sole del mattino”); ansimante tra boschi e crinali, con l’alterno ‘fiato della resistenza’, la narrazione corre d’altronde fluida con quelle giornate che concedono anche un poco di allegria (“Gli unici momenti di riposo venivano oramai dalle notti trascorse sul crinale. Non mancava, ed era invenzione, modo di ridere, di divertirci. Baffi, Moro, Marinaro, Zio raccontavano San Frediano, nomi e cognomi di caporioni fascisti demistificati e messi in berlina da un genuino spirito popolare”) e immagini suggestive (“la limpida bellezza del Pratomagno”/“Il fronte (...) brontolava giorno e notte verso l’azzurro orizzonte chiantigiano”). Il tutto pervaso e conchiuso – mi pare - da un’onestà di fondo, che non è l’irrealizzabile obiettività/astrazione dall’io, bensì l’esatto opposto: disvelamento/ verità di sé, senza orpelli.