Dalla campagna alla città. Un esodo a tre voci
Cultura Commestibile, 11-10-2014, Paolo Marini
Ha il respiro di un epos familiare (a rievocare il tempo in cui “l’aia era (…) il luogo d’incontro con gli ospiti”, si faceva “una vita dura, senza tempo, ridotta per sempre ad un pezzo di terra” ma quando “ci si riuniva intorno al desco si cominciava sempre col segno della croce perché il pane era un dono del Signore”) eppure è insieme un lamento sobrio e dolcissimo, prezioso come quell’acqua che è “l’anima antica del tempo”. “I giorni dell’esodo” (termine di reminiscenza biblica, verosimilmente non casuale) di Franco Manescalchi (Polistampa, “Corymbos”) è strutturalmente un canto polifonico, a tre voci - quella di Guido (il capofamiglia), di Bruna (la moglie) e di Franco (il figlio e autore dell’opera) – ciascuna intonante la propria melodia, un vissuto fatto di sentimenti, di riverberi e rovelli interiori, prima che di eventi ed episodi della vita materiale. Un canto diviso in due sezioni (un prima e un dopo) che si sviluppa - ora smorzandosi, ora aprendosi più disteso - attorno al canovaccio dell’abbandono del podere di Rovezzano negli anni ‘50, in un dopoguerra in cui la miseria si taglia col coltello, per trasferirsi in una casa a Firenze, al Ponte Rosso. Là erano mezzadri e lavoravano la terra, qui vivono in “tre stanze senza servizi in cambio della manu
tenzione di un giardino di tremila metri quadri, senza stipendio” con Bruna che lavora al pedale della Singer per guadagnare pochi soldi e un giovanissimo Franco che studia, ‘sorvegliato’ da un padrone insospettito dalle sue letture, e soffre l’inaccettabile “Medioevo” che ancora governa i rapporti umani e sociali. Invano si cercheranno in queste pagine tracce di sdolcinata nostalgia così come di una rabbia gonfia di contestazione, di rivendicazioni. Vi è innervata, piuttosto, una potente vena poetica; potente, poiché semplice, vera, nella sostanza e nella forma (a mio avviso così sempre intrecciate, da farne un tutt’uno). Merita perciò di essere sorseggiato, parola dopo parola, pagina dopo pagina, a scoprirne la magia descrittiva (“bere acqua al beccuccio della mezzina era sensazione unica, certamente il piacere più caro alla memoria. Il fresco del rame alle mani, lo sgorgare dell’acqua alle labbra con la testa piegata indietro; il leggero ‘amarognolo’ del rame dava all’atto una gioia perfetta”), la forza evocativa (“si passavano (…) intere giornate, lavorando, parlando e più spesso in silenzio vicino al focolare, come se si ascoltasse una voce lontana che non sapevamo se fosse quella del vento o di Dio”) e perfino pittorica, di una pittura di macchia (“dopo l’ultimo bicchiere il ve
cchio si lisciava con le mani a pala i baffi spioventi sotto i forti zigomi e finiva così a somigliare al noce a cui stava appoggiato”), a confermare che la poesia è una specie di acqua purissima che alimenta e sospinge la creatività artistica, comunque declinata. Pur nella profondità dell’intenzione e del risultato, questo ‘esodo’ corre leggero angustie e di gioie, di luce e di sofferenze, non mancandovi sussulti di felicità (“... alla Cerbiosa il lavoro nei campi era durissimo, ma in certi momenti ci si sentiva liberi come uccelli: specialmente nelle mezze stagioni si passavano ore da non dire”) siccome immagini di feroce ironia (gli antifascisti riuniti sull’aia che “al fresco della sera rutteggiavano al Duce in un giro di briscola”). Leggere quest’opera procurerà una diversa soddisfazione, in ragione dell’età: il vecchio vi riconoscerà un piatto della propria stessa tavola e potrà, nella condivisione, esultare e commuoversi; il giovane vi scoprirà un profumo ignoto di cultura contadina, una felicissima batteria di detti e di intercalari che, nell’era dei tweet e dei fraseggi tronchi e insulsi, stacca la massa dell’informe/uniforme e mostra di quali ricchezza e profondità sia capace il linguaggio. Anche per questo, l’ ‘esodo’ di Manescalchi è imperdibile.