La città “degli Inglesi”
La Repubblica, 19-07-2013, Fulvio Paloscia
I libro A sentimental journey, in cui il critico d’arte Claudio Paolini racconta la storia dell’attrazione fatale tra Firenze e i poeti, scrittori, artisti inglesi o americani, non va letto solo in funzione di un glorioso passato di turismo colto e raffinato. Certo, il saggio (edito da Polistampa)è un regesto dettagliatissimo dei luoghi topici, le abitazioni, gli alberghi, i personaggi della Firenze anglobecera: una folla di uomini e donne ben oltre i nomi più noti si muove in queste pagine, ognuna ha finalmente giustizia storica. Ma la chiave di lettura più opportuna sta «nel trovare un rapporto con noi fiorentini di due secoli dopo - spiega l’autore - Ho affrontato questa ricerca per spingere noi cittadini di oggi, ma anche chi governa la città, a constatare cosa sopravvive delle motivazioni che fecero di Firenze la meta di intellettuali stranieri così innamorati del luogo da lasciarci in eredità musei, biblioteche, collezioni d’arte. La risposta è: niente. Rimane un meraviglioso patrimonio, ma tutto il corollario è messo in crisi». Oggi, per esempio, diventa arduo pensare che tra 1830 e 1930 Firenze fosse una città low cost dove il tenore di vita «era pari a quello londinese ma con una spesa equivalente a un terzo. Il caso di Horne è eclatante: veniva dalla middle class eppure, con i prove
nti della vendita della sua piccola abitazione a Londra, qui a Firenze acquistò un intero palazzo per ospitare la sua collezione di pregiatissime opere d’arte». E ancora a noi uomini delle polveri sottili pare impossibile che Firenze «fosse considerata, da chi arrivava dalla Londra della rivoluzione industriale, come il luogo dotato dell’aria ideale per guarire la tubercolosi». Infine, la libertà «dalle convenzioni, abbattute da una politica granducale molto aperta. Quando Oscar Wilde invitò il suo amante, in una lettera, a scappare da Londra e a rifugiarsi in Italia, con ogni probabilità aveva in mente Firenze, dove i due si erano potuti, tra l’altro, incontrare». «Sono arrivati degli inglesi» disse un facchino al padrone dell’albergo «ma non ho capito se sono russi o tedeschi». Il motto popolare evidenzia il ruolo fondamentale che la gente d’Oltremanica stabilì con la città, fino a includere tutte le nazionalità in visita. Ma dove risiedeva la comunità anglobecera? E che rapporti intratteneva con i fiorentini? «Ce li immaginiamo a oziare sui colli. E invece no, vissero anche nel centro, nel “di qua d’Arno” battuto dal sole, con il tratto tra piazza Santa Trinita e Ponte Vecchio pieno di grandi alberghi. Via dei Serragli fu la nostra Montma
rtre: qui infatti fiorivano gli atelier degli scultori, americani soprattutto, attratti dalla vicinanza tra Firenze e il marmo di Carrara: provenivano da un Paese che doveva costituire il proprio Pantheon di grandi uomini. Poi, con i lavori di Firenze Capitale, tutto si spostò a Bobolino, per maggiore disponibilità di spazi nei nuovi villini. Fu una città davvero cosmopolita? Per quel che se ne sa, i rapporti tra ospiti e fiorentini furono freddi. L’approdo degli stranieri a Firenze - conclude Paolini - era legato a quella loro idea di città che avevano letto nei diari dei viaggiatori, o semplicemente sognato. Tutto il resto era pura distrazione. L’unica istituzione che ha fatto veramente da legame è stata il Vieusseux». Oltre ai musei, c’è qualcos’altro che gli anglobeceri ci hanno lasciato in eredità: «La loro lettura di Firenze, ci fa percepire cose che a noi fiorentini non sarebbero evidenti. Henry James, testimone della Firenze prima, durante e dopo i lavori di Poggi, ebbe toni di accondiscendenza per la città stravolta, bagnata comunque da una luce bellissima che tutto riscatta. Più duro, invece, Edward Morgan Forster: cinquanta anni dopo A room with a view, nell’appendice A view without a room stigmatizzò gli stravolgimenti portati dalla costruzione della Biblioteca Nazionale».