Firenze, Museo dell’Opera del Duomo. Omaggio a un grande
Nuova e Nostra, 12-03-2006, Mirella Poggialini
Sono scolpiti nella pietra, eppure volano leggeri come sospesi nell’aria, gli angeli di Arnolfo di Cambio, lo scultore architetto urbanista che morì settecento anni fa e che ha lasciato nobili tracce del suo lavoro fra Roma, Perugia, Orvieto e Firenze, segno di una visione del mondo in cui grandeza e senso del bene comune si univano strettamente.
Una grande mostra, aperta a Firenze sino al 21 aprile presso il Museo dell’Opera del Duomo, con il titolo "Arnolfo alle origini del Rinascimento fiorentino", con un catalogo imponente ed esaustivo da Pagliai Polistampa, consente ora, con circa cento reperti, di ricostruire la personalità e l’opera di questo genio dell’arte gotica, che operò presso la corte papale e nella città fiorentina, lui nato nel contado di Siena, e con la facciata del Duomo di Firenze impostò una nuova concezione dell’arte e del suo rapporto con la città. Mostra grandiosa e per qualche verso impositiva, in questo periodo sovrastato dalla pittura e dalle sue seduzioni: perché vediamo soprattutto reperti lapidei e marmorei, oltre a un ingente corredo di documenti oreficerie, oggetti sacri, reliquari, sigilli, tessuti e ricami, ritratti postumi. Poiché non è facile ricostruire, malgrado l’attento e lungo studio degli esperti che ha preced
uto e generato la mostra, la vita e la produzione di un artista che, allievo di Niccolò Pisano per l’esecuzione del pulpito di Siena nel 1265, arrivò poi ai massimi livelli di committenza, di cui sono esempio il busto e la statua di Bonifacio VIII, con l’alta tiara ieratica e lo slancio verticale della figura, stilizzata pur nella fedeltà realistica del volto.
Arnolfo e la sua bottega, attivo sino al 1301, ultima data certa della sua vita, ma ancora presente in Firenze per l’opera della cattedrale di Santa Reparata, il Duomo, attorno al quale volle allargare lo spazio di una piazza - e anche allora, secondo i documenti, non fu facile operare contro gli interessi individuali in favore di quelli collettivi - come luogo al convenire di una folla di fedeli, di popolo partecipe.
Attento al gotico francese e alle cattedrali mariane che allora crescevano in terra di Francia, Arnolfo sentì tuttavia la forte influenza del classicismo romano, tradotto in originale concezione dello spazio e dei volumi. Ma è soprattutto nella scultura che noi ritroviamo oggi una genialità nutrita di sentimenti e di convinzioni, una capacità inventiva che coniuga leggerezza e forza nei panneggi delle vesti, nei quali si anticipano - e pare impossibile - le tracce di quella scansione dello spazio
astratto che ora imposta l’arte moderna e si fa movimento. e infatti si muovono con torsioni agili o slanci repentini le figure di Arnolfo, le donne con le anfore che simboleggiano il dono dell’acqua delle fonti e volani agili dall’alto verso il basso, con balzi eterei, gli angeli del ciborio romano di San Paolo, mentre fluttuano lievi i panneggi delle vesti degli Angeli reggicortina in cui i lembi dei panni sono aeree sospensioni.
E poi il Presepe di Santa Maria Maggiore a Roma, di immediata tenerezza e semplicità, il mosaico della facciata con la "Madonna incoronata", la "Madonna dagli occhi di vetro" che si inchina al Figlio, le mani abbandonate in gesto di fiducia di un monumento sepolcrale, la statua del Cardinal de Bray di San Domenico a Bologna... Immagini remote che si offono al visitatore con diretto richiamo, come a collegare quel passato, ora dimenticato ma nobile e fiero, al vuoto attuale. Non solo una mostra d’arte, un omaggio a un grande che sapeva veder grande anche il mondo che lo attorniava e in cui lasciava la sua traccia d’ingegno; ma una sorta di messaggio, per chi sappia raccoglierlo, un invito a sentire la propria città, il luogo della preghiera e quelli della vita, come bene di ognuno, destinato a chi verrà dopo, per durare nel tempo.