Caracciolo, monaca garibaldina con una vita da best-seller
La Stampa, 04-01-2012, Mario Baudino
Nel 1864 grazie alla propria autobiografia ebbe una scomunica ma decine di miglia di lettori. Una ricerca la rilancia con altri autori di successo dimenticati

L’editore Gasparo Blirbera ha lasciato scritto nelle sue memorie di non ricordare più quante edizioni ne avesse tirate. In dieci anni vendette almeno ventimila copie, e si era un Paese, all’indomani dell’Unità, con un tasso di analfabetismo al 78 per cento e una popolazione, comprese le regioni ancora sotto l’Austria, di ventisette milioni di abitanti. Venne tradotto nelle principali lingue europee, e subito in inglese; incuriosì Manzoni, Settembrini e persino Dostoevskij, e fra copie pirata e copie ufficiali continuò a vendere tantissimo, ancora per molto tempo. Fu il primo best seller dell’Italia unita (insieme ai Miei ricordi, di Massimo D’ Azeglio), l’Harry Potter dei garibaldini, un successo di proporzioni impensabili.
Oggi si parlerebbe di milioni di copie. Eppure, mentre il D’ Azeglio è ricordato almeno nei libri di scuola, di Enrichetta Caracciolo e del suo I misteri del chiostro napoletano si è persa ogni memoria. L’autrice era una monaca di clausura, rinchiusa a forza in un convento napoletano, e ovviamente ribelle. Dovette aspettare Garibaldi per essere finalmente liberata. Durante una solenne messa per celebrare la sconfitta dei Borboni, depose il velo sull’altare. Nel 1864 pubblicò la sua opera, un romanzo verità che vibrava d’indignazione e che la trasformò in un personaggio pubblico molto amato e molto odiato (si guadagnò anche una scomunica). 
La vicenda di Enrichetta Caracciolo è stata riproposta in una ricerca di Michele Giocondi, pubblicata da Mauro Pagliai col titolo I best seller italiani 1861-1946, che mette in fila una quantità di autori, alcuni come De Amicis e Collodi ancora celebri, ma i più completamente spariti. Viene da chiedersi se il t
empo abbia fatto davvero giustizia. E la risposta, nel caso della Caracciolo, è quantomeno incerta. La sua storia discende dal Manzoni e da Diderot. Però è la sua, una storia che la riguarda in prima persona, narrata senza troppe effusioni; con un piglio deciso, quasi non parlasse di se. Eppure di quella monacazione quasi morì. Figlia di una nobili e probabilmente decaduta famglia, fu costretta a pronunciare i voti nel 1841, a vent’anni. E subito si scontrò, lei raffinatissima, con consorelle ignoranti e analfabete.
Dopo sei anni provò a chiedere lo scioglimento dei voti, senza successo. A Roma era salito sul soglio pontificio Pio IX, il papa «liberale», ma l’arcivescovo di Napoli era irremovibile. Persino la madre, che a un certo punto ammise di aver fatto violenza alla volontà della figlia, fu arrestata perché ritrattasse. Arrivò il  ‘48, e per Enrichetta si riaccesero le speranze.
Non sappiamo come ci riuscisse, ma leggeva i giornali liberali e cercava di introdurli nel monastero. di San Gregorio Armeno. Scrisse e distrusse le sue memorie, per paura di ritorsioni sulla
famiglia. Era una musicista, ma quando ottenne di essere trasferita al Conservatorio di Costantinopoli (un convento più1iberale), le fu vietato di leggere libri che non fossero vite dei santi, di tenere un diario, di scrivere lettere, chissà perché, di suonare Rossini.
Davanti a una pressione di questo genere cominciò a soffrire di disturbi psichici; ottenne un regime di «semilibertà», che le consentiva ogni tanto di uscire dal convento, ma tra una prevaricazione e l’altra non ebbe la possibilità nemmeno di assistere la madre morente. La sua fu una vicenda a tinte forti (e fosche). Combatteva da sola contro autorità ecclesiastiche e polizia, da eroina ottocentesca quale del resto era. Dopo un anno di isolamento tentò il suicidio. Ottenuta cos&igr
ave; una maggiore libertà, per curarsi, si trovò a dover vivere in maniera semiclandestina, cambiando continuamente casa. L’armata di Garibaldi pose fine a tutto questo, le consentì di sposarsi (con un patriota napoletano) e fece nascere una scrittrice.
Tra le sue pagine, alcune restano memorabili. Per esempio questa, sulla cerimonia di monacazione: «Le monache strinsero in una sola treccia i miei lunghi capelli, e la badessa impugnò delle grandi forbici per reciderla, mentre un silenzio profondo regnava intorno. Una voce potente, uscita da mezzo i convitati, gridò: “Barbara, non tagliare i capelli a quella ragazza!”. Tutti si volsero: bisbigliarono di un pazzo. Era un membro del Parlamento inglese. I preti imposero silenzio le monache, le quali in altre simili funzioni avevano veduto de’ protestanti, dissero alla superiora, ch’era rimasta colla mano sospesa, stringendo le forbici: «Tagliate! È un eretico». La chioma cadde, e presi il velo».   I big tra 1861e 1946 Nel primo anno del regno d’Italia, con soli sei milioni di cittadini alfabetizzati, si stamparono più di tremila libri. Le proporzioni da allora non sono molto cambiate, se consideriamo che oggi si stampano fra le 50 e le 60 mila novità per una popolazione di 60 milioni. È quanto emerge dalla ricerca di Michele Giocondi, insieme alla serie di grandi successi dimenticati. Il cono d’ombra, dietro i grandi della letteratura, è affollato da quanti furono considerati gli astri più fulgidi dell’epoca: chi ricorda più Girolamo Rovetta, che pure con Mater dolorosa vendette,a fine Ottocento, cinquantamila copie? A inizio Novecento Luciano Zuccoli arrivava anche a 150 mila copi, e Umberto Notari, con Quelle signore, un libro-confessione dedicato alle case chiuse, ebbe un successo strepitoso. Fra processi, sequestri, cause e manifestazioni, in vent’anni vendette cinquecentomila copie.