Secolo d’Italia, 05-02-2012, Mario Bernardi Guardi
Il “perturbante” è qualche cosa di inatteso, di imprevedibile, di inquietante che irrompe nel quotidiano. Oppure è un elemento della quotidianità di cui all’improvviso percepiamo un tratto alieno che ci trasmette ansia, addirittura angoscia. Insomma, un oggetto, un animale, una persona con cui abbiamo dimestichezza, nel senso che rientra nella nostra vita domestica o comunque in ciò che siamo abituati a considerare come “normale”, “comune”, e che, ecco, viene a svelare una cifra insolita, insospettata. Dov’è che si occultava? Perché lo faceva? E, adesso, che cosa viene a dirci? Non è facile capire: avvertiamo confusamente ma non mettiamo a fuoco. Il linguaggio delle immagini e delle impressioni, che pure potentemente coinvolge, resta allusivo, cifrato; lo scenario che ne emerge ha contorni suggestivi, ma ignoti, oppure “vagamente” noti, come se ancestrali risonanze (ri)suscitassero contorni smarriti.
Il perturbante è il bagliore dell’oscuro, un inspiegabile segnale di pericolo, una sfida ai livelli consueti della “conoscenza”, un’orma di mistero che si affianca a quelle impresse su un terreno consueto e via via le sovrasta. Il perturbante è, può essere, quello che chiamiamo “orrore” e che si può cogliere nella narrativa di Ernest Theodor Hoffmann, di Edgar Allan Poe, di Howard Phillips Lovecraft (sulla “poetica” del Maestro di Providence si veda “Teoria dell’orrore”, a cura di Gianfranco de Turris, Bietti, pp. 556, euro 24).
Il topo – simbolicamente connesso a profondità ctonie, emblema degli aspetti sotterranei della comunicazione col Sacro – è un animale perturbante? In un racconto di Dino Buzzati, intitolato appunto “I topi” (lo si veda in Buzzati, “Opere Scelte”, I Meridiani Mondadori, 1998, pp. 833-838), l’Io narrante evoca i suoi soggiorni trascorsi come ospite della famiglia Corio in una villa di campagna. I suoi amici, però, ultimamente hanno accampato scuse per lasciar cadere l’invito. Come mai? Corre voce che la presenza dei topi, dapprima sottovalutata dai proprietari , poi vistosamente cresciuta e fronteggiata senza successo, si sia trasformata in una most
ruosa operazione di conquista. L’epilogo è pura epica dell’orrore: “ Dicono che nella villa nessuno possa entrare; che enormi topi l’abbiano occupata e che i Corio ne siano gli schiavi. Un contadino che si è avvicinato – ma non molto perché sulla soglia della villa stava una dozzina di bestiacce in atteggiamento minaccioso – dice di avere intravisto la signora Elena Corio, la moglie del mio amico, quella dolce e amabile creatura. Era in cucina, accanto al fuoco, vestita come una pezzente; e rimestava in un immenso calderone, mentre intorno grappoli fetidi di topi la incitavano, avidi di cibo. Sembrava stanchissima ed afflitta. Come scorse l’uomo che guardava, gli fece con le mani un gesto sconsolato, quasi volesse dire: ‘Non datevi pensiero. È troppo tardi. Per noi non ci sono più speranze’”.
L’esasperazione del perturbante? Un incubo da cui non ci si desta. L’infero topo trasformato in tiranno. Ma lo scrittore romano Angelo Mainardi propone un’immagine più complessa del sinistro animaletto, allusiva ad una pluralità di interpretazioni, del resto più che legittima allorché si ha a che fare con un “simbolo” e dunque con la sua “ambiguità” (“La superiorità del topo”, Mauro Pagliai Editore, pp. 203, euro 12).
La storia? Nel cassetto di un mobile anni Trenta acquistato presso un rigattiere, un certo Willy S. trova un fascicolo di fogli slegati e ingialliti. Le carte del manoscritto – anonimo – recano un titolo – “Della superiorità del topo” – che evoca lo stile di un trattato. In realtà è una sorta di autobiografia. Vi si raccontano episodi in cui il protagonista si imbatte nei topi in singolare coincidenza con eventi importanti della sua esistenza. O vogliamo chiamarle occasioni di disvelamento? Momenti fatali e cruciali in cui il piccolo roditore viene a guastare i consolidati meccanismi con cui proteggiamo ipocrisie, menzogne e banalità dell’esistenza dalla feroce irruzione della verità? È per questo che il topo è “superiore” nonostante i richiami inferi e l’immediata ripugnanza che suscita?
Il passaggio delle carte dall’anonimo tr
attatista a Willy, che scrive il prologo, e da questi all’“amico” Mainardi, che stila l’epilogo della storia (Willy, nel frattempo, è scomparso dalla circolazione), non danno risposte agli interrogativi. Tra l’altro, per Mainardi, impegnato nella cerca dell’amico e del “senso”, è impossibile risalire all’ultimo proprietario del mobile, che potrebbe saperne di più sul manoscritto. Infatti un negoziante che fa un acquisto non fornisce mai informazioni sull’identità del venditore. E poi “quelle” carte c’erano davvero in “quel” cassetto? L’antiquaria da cui l’Autore si reca per avere informazioni appare, al tempo stesso, reticente e ammiccante. Mentre il topo che all’improvviso fa capolino nel negozio ribadisce l’intricata connessione tra la “realtà” e l’“immaginario”, tra la “terra” dove crediamo di poggiare i piedi forti delle nostre sicurezze e il magmatico sottosuolo dell’inconscio.
È lì che abita il topo? E da lì che viene fuori – perturbante nel suo “orrore” – a svelare i nostri “orrori”? E cioè la tetra violenza dei nostri istinti, la voluttà di sesso e sangue che ci distingue? Il topo che accende di odio una delle donne evocate dal “memoriale” e le fa gridare “ammazzalo!” all’uomo che le sta accanto mentre nel maschio, così sollecitato, affiorano incontenibili pulsioni erotiche e distruttive (lei, poi – quanto più avrà infierito sul mostriciattolo – saprà ricompensare il suo “eroe”); il topo, guizzando da un episodio all’altro come un inquietante “messaggero”, ci sfida a guardarci allo specchio. E anche a interrogarci sui tortuosi percorsi della storia, della cultura, della fantasia creatrice: topi sono gli ebrei della “graphic novel” “Maus” (Einaudi Stile Libero, 2010), in cui Art Spiegelman traduce in immagini l’incubo dell’Olocausto, topi sono i fascisti della “Voce della Fogna”, il giornale “underground” in cui, tra il 1974 e il 1983, Marco Tarchi e “kamerati” raccontano il sogno di una generazione.