«Dalla fabbrica alla strada. Racconto l’inferno di chi ha perso il lavoro»
La Nuova Venezia, 01-05-2011, Roberto Lamantea
La sua biografia sembra quella di certi scrittori americani: da ragazzo ha fatto il barbiere (nel pomeriggio, la mattina andava a scuola), il meccanico, l’incisore, ha lavorato in fabbrica con le cooperative, ha fatto il muratore, il garzone che, come nei vecchi film Disney, getta i pacchi dei giornali, nel ’77 si è licenziato da tutto e si è dedicato alla navigazione, ha girato gli Stati Uniti e, in Canada, la regione dei grandi laghi. Poi è tornato in Italia, si è laureato in Scienze della formazione all’Università di Padova, ha partecipato a concorsi e, prima a Mirano oggi al comune di Venezia, lavora nel settore sociale. La parte migliore di me è il suo terzo libro, dopo Il sorriso e la poesia (2000) e L’uomo dei Balcani (Polistampa 2005), duro racconto dalle macerie dell’ex Jugoslavia dopo la guerra in Bosnia. I Balcani li dipinge dopo aver vissuto il paesaggio della guerra e aver visto l’umanità invisibile ai turisti, che vive e s’arrangia (un po’ come Napoli e le altre città nel primo dopoguerra filmate dal cinema neorealista); nel nuovo romanzo il protagonista, Gianni, è un barbone, uno di quelli che puzzano, che evitiamo, che ci fanno schifo. Fabio Amadi i barboni li conosce bene, visto il lavoro che fa. Come è nata la prima idea del libro?
Da un anno di esperienza alla Casa dell’ospitalità, 11 mesi, prima di lavorare alla segreteria di Delia Murer, poi nel gabinetto dell’allora sindaco Massimo Cacciari. Volevo staccarmi da sociale. Mi sono detto: provo a mettere un po’ di ordine. Sì, ho fatto anche l’impiegato. Ma quegli undici mesi alla casa dell’ospitalità li ricordo bene: i volti, i corpi, gli odori, gli occhi. Quando ho pubblicato L’uomo dei Balcani Gianfranco Bettin mi ha detto: continua, che scrivi bene. Avevo fatto tanti viaggi in barca, ho visto la guerra.
Scrivere un romanzo con protagonista un barbone non è facile, disegnare un romanzo che diventa così dopo aver vissuto le fabbriche.
Ho sempre un tormento dentro, il tormento di capire, l’ambiguità di distaccarmi e nello stesso momento di cercare le mie radici, che inevitabilmente sono sotto le ciminiere. Chiunque sia di Marghera ha vissuto vicino alle ciminiere. Ma io il tema del lavoro ce l’ho da sempre. La mia famiglia viene da Schio, l’Alto Vicentino è terra industriale, del settore tessile, anche se io ho vissuto poco la fabbrica.
Nel libro il protagonista, prima di lasciarsi andare a trasformarsi in clochard, vive l’esperienza della fabbrica, l’impegno sindacale, ma anche la delusione. Si legge: «Quel tacito patto fra fabbrica e città era saltato, non esisteva più. Il mondo stava cambiando, erano cambiati i confini, e non solo quelli fisici o politici ma soprattutto quelli mentali». È questa la radice della crisi?
Tutto sta cambiando. Vediamo i paesi arabi, la loro ricerca di democrazia. Così nel lavoro viviamo anni drammatici: la perdita delle certezze ideologiche e anche di quelle materiali, le fam
iglie che non ce la fanno più. Si fa presto a dire flessibilità, prova a dirlo a chi un lavoro non ce l’ha più. Io il concorso in Comune l’ho vinto quando avevo 41 anni. Fanno i contratti a progetto per gente che non avrà un futuro. Trovo tutto questo molto destrutturante per una persona: come si fa a edificare una società solidale, umana?
Esperienza di vita e analisi sociale come sono diventate racconto?
Ho visto tantissime persone, incontrate nel mio lavoro nel settore sociale, persone che non ce l’hanno fatta. Oggi viviamo in un mondo dell’apparire, della televisione, dove sembra che parlare di perdenti sia un’eresia. Invece penso che sia giusto, ci riguarda tutti, e spesso non è una vergogna essere un barbone. Le vergogne sono altre. La vergogna è Osvaldo, il politico del romanzo, che accoglie Gianni sulla sua auto e gli fa la predica. Osvaldo impersona la teoria del galleggiamento, che serve a lui ma non alla polis, non alla società, non a risolvere i problemi della gente. Attenti, la figura di Osvaldo, dell’amico di una volta che ha fatto carriera in politica, non è quella di chi non ha sensibilità sociale , ma è l’inutilità di chi fa politica per professione: lui galleggia per mantenere lo status quo, non porta nessun valore aggiunto. Che i politici come Osvaldo ci siano o no non cambia nulla.
In un’altra pagina si legge: «Iniziai a capire che da quel momento davanti a me avevo solo il vuoto, ero diventato il vuoto. Perché quando non hai più un posto dove andare, e cammini per la città vedendo attorno a te decine e decine di case con le luci che escono dalle finestre e sai che nessuna di quelle è la tua, che non potrai entrare in nessuno di quei condomini, in quel momento ti accorgi di esser diventato una nullità che cammina e non sa dove andare, dove mangiare, dove lavarsi, dove riposare le gambe, i piedi gonfi, sudati e maleodoranti».
Il degrado. Nessuno ci pensa. Un’estraneità totale. E l’unico pensiero è cercare da mangiare e un posto dove dormire. Quando una persona va in strada vive per la roba: è questo abbrutimento che volevo scrivere. Gianni è «ultimo della terra». Quando entra in chiesa si siede in fondo, cerca aiuto ma quasi non vuole farsi vedere.
Tema duro. Eppure la pagina è asciutta, quasi leggera...
Non ho mai voluto calcare la mano per colpire il lettore. E poi fino a pochi anni fa, per me, pubblicare un libro era solo un sogno...
Inevitabili riferimenti letterari, penso a Joseph Roth, a Bukowski...
Quante volte ho letto Il santo bevitore! E La cripta dei Cappuccini. Ma anche I demoni di Dostoevskij, Padri e figli di Turgenёv, Hesse. E ovviamente, Bukoswki.
Nel romanzo Mestre e Marghera non sono mai nominate: è una scelta?
Sì, anche se ci sono riferimenti. Mi pare evidente che i fioi che i xe drio ocupare l’isola (gli operai della vinyls, ndr) domani possono andare in depressione. Ci sono riferimenti all’attualità, ma
sono filtrati: perché la crisi non è solo Marghera.
La festa del 1° Maggio ha ancora senso?
Certo che ha senso. Spero ancora in qualcosa, e non voglio restare fermo. Vogliono demolire l’articolo 1 della costituzione? Ma un paese si edifica anche sui simboli. Non basta dire: la Repubblica è fondata sul lavoro, bisogna anche costruirla. Gianni diventa un barbone perché perde il lavoro. Serve uno sforzo maggiore da parte dei vari Osvaldo per gestire la complessità del nostro tempo. Il 1° Maggio è un simbolo. Non dobbiamo perdere memoria, non dobbiamo perdere i simboli né permettere che restino carta morta. Vedere la città, il mondo, con gli occhi di chi della città e della società è un rottame, un rifiuto, uno scarto, non è un senso di estraneità solo psicologico. È fisico, è sentire lontano e irraggiungibile ciò che si ha sotto gli occhi. «Su una panchina […], per quanto coperto tu sia, il freddo ti entra da tutti i buchi: dai polsi, dal collo, dalle caviglie. Ti entra e sale, lentamente, incuneandosi in tutto il corpo, si appoggia sui peli e sulla pelle, ti avvolge e rimane lì, fermo assieme a te. […] Anche tu diventerai freddo, diventerai gelo, foglia secca che cade dall’albero, calpestata dal passante che va di fretta verso il calore omogeneo della sua casa. Diventerai foglia e poi polvere, il vento ti alzerà, ti mescolerai all’aria diventando tutt’uno con l’inverno, la stagione che ti ha portato via». Chi racconta la propria storia in prima persona – tranne una postilla in corsivo che conclude la narrazione – è un barbone, un clochard, un rottame. Era operaio in una fabbrica chimica, ma la fabbrica ha chiuso; ha conosciuto l’entusiasmo del movimento sindacale e la sua omologazione alla politica; ha tentato di rifarsi una vita aprendo un bar, ma è andata male; la moglie se ne è andata; si è arreso ed è diventato un barbone. È negli inferi. È un romanzo duro nei temi ma limpido nella scrittura La parte migliore di me, il nuovo libro di Fabio Amadi (Mauro Pagliai Editore, pag. 84), presentazione di Walter Veltroni, prefazione di don Dino Pistolato, in libreria dal 15maggio. Fabio Amadi è di Marghera, nel romanzo Mestre e Marghera non sono mai nominate. Le fabbriche del polo chimico forse definitivamente senza futuro (il caso Vinyls insegna), le panchine e i bar, le vetrine e i palazzi, la stazione ferroviaria sono anche Marghera e Mestre, ma sono anche tutte le altre città. La scrittura di Amadi è asciutta, l’indignazione, la rivolta, la solitudine, il freddo, il niente sono narrati attraverso i pensieri del protagonista, i suoi occhi, i suoi piedi, i suoi sensi, la sua pelle, il suo odore, la sua coscienza: «La guerra dei poveri nei confronti dei più poveri, che a loro volta cercavano altri ancora più poveri, per far loro la guerra, per poter dire di avere qualcuno che sta al di sotto, qualcuno di inferiore per il colore della pelle, la lingua diversa».