Nessuno scrive più al vecchio sceriffo. E allora ci pensa lui
Corriere fiorentino, 21-01-2011, David Allegranti
«Oggi, come miracolato sono in perfetta forma». Vero, basta vederlo mentre presenta il suo libro per accorgersene, per capire che la malattia non l’ha vinto, che lo spirito di Graziano Cioni, barbuto tribuno della plebe, è sempre lo stesso di un paio d’anni fa, quando trasformò il suo ufficio al terzo piano di Palazzo Vecchio in un fortino per fronteggiare la guerra di Castello. La battuta tagliente, i ricordi lucidi e divertenti di chi è stato comunista, consigliere provinciale, senatore, vicesindaco e altre cose, e gli è mancato solo di fare il sindaco. Trovando il tempo perfino di saggiare le armi, farsi un anno e mezzo in Friuli dopo il terremoto del 1976 – inviato dal Pci e da Michele Ventura per ricostruire le zone sciagurate – e trovando il tempo di candidarsi alle primarie del 2009 prima di essere costretto a ritirarsi. Tutto intatto, tutto raccontato nella sua autobiografia «Cioni ti odia», pubblicata da Sarnus Polistampa (15 euro, 188 pagine) con prefazione di Marcello Mancini. Compreso l’incubo del 2008, lo scoppio delle inchieste, la scoperta della malattia e la solitudine in cui è stato ricacciato da chi gli era vicino nei momenti di gloria. «Gli amici veri – scrive Cioni – mi sono rimasti vicino, persone per le quali mi sono speso per molti anni non hanno alzato nemmeno il telefono per sentire come stavo, fra questi i dirigenti del mio partito. Senza parlare di quella pletora di individui che mi girava attorno solo per un proprio tornaconto. Le persone, i fiorentini, la gente comune che trovo per strada  mi manifestano invece calore e piena solidarietà». E sono quelli che oggi lo salutano per strada e nei caffè che ha
trasformato nei suoi nuovi uffici , sono quelli che a Pontorme, Empoli, dove Cioni è nato, facevano parte della sua quotidianità e che ora stanno in apertura del libro, tutti classe 1946 come lui: il Giani detto «la Gazzetta» perché era l’unico che leggeva il giornale, Giampaolo Marmugi detto «Nocche» che aveva fatto il militare insieme a Gianni Morandi.Lui Cioni detto lo Sceriffo sarebbe diventato anni dopo. «Ma ora basta  sceriffi», dice. Non si è fatto mancare nulla: nel libro racconta che nell’agosto 1969 a Bulbana sull’Appennino tosco-emiliano, durante un campeggio di formazione e di dibattito politico, quando allora era segretario provinciale della Figc di Firenze, imparò di nascosto a «usare le armi se fosse stato necessario». Qualche pagina dopo e Cioni lo ritroviamo fra i fondatori dell’Idv quando era ancora un movimento e non un partito, dove ha conosciuto Antonio di Pietro, «uomo eccezionale, eccessivo, a volte arrogante». Lui però aveva già un partito, il Pds, e non voleva entrare in un altro schieramento. E altri incontri e amicizie: con Andreotti e con Massimo D’Alema, «un grande statista», scelto premier grazie a un accordo siglato su un panfilo fra Cossiga e l’ambasciatore americano a Roma perché, racconta Cioni, serviva uno di sinistra per bombardare l’ex Jugoslavia. Altre epoche, ora i personaggi sono diversi. Ci sono latri partiti. Altre situazioni. Ora c’è il Pd, «una fusione a freddo fra ex comunisti ed ex democristiani con uno scontro permanente all’interno dei vertici». Ora c’è «la maledizione di Castello», che
ha falciato un pezzo della classe dirigente fiorentina degli ultimi anni. Si dichiara innocente ed estraneo a tutti, Cioni, lo ha sempre detto.Certo, c’è chi ha sbagliato in quella vicenda. Come l’ex sindaco Domenici nella trattativa con i Della Valle per fare la Cittadella Viola: il boxeur di Palazzo Vecchio in quel momento «fa la scelta sbagliata: segue un percorso mascherato e ha paura di dire con sincerità alla città che in fondo ottanta ettari di parco pongono più problemi che vantaggi». Ma Domenici lo sente ancora? «Non ci ho più parlato», dice presentando il libro in cui racconta qualche retroscena: nel 2004 l’ex sindaco fu mandato al ballottaggio, si arrabbiò e «fu sul punto di ritirarsi». È fatto così, Domenici, dice Cioni che racconta di essere andato più di una volta «a casa sua per riprenderlo» dopo qualche incazzatura. «Non amava stare fra la gente, lo portavano con la macchina sulla porta di Palazzo Vecchio e, con la macchina, dal portone ripartiva », scrive. Ora c’è Renzi, uno che «non cerca consenso, vuole solo adorazione». «La rottamazione èil modo che Renzi ha trovato per farsi sentire sul piano nazionale, ma i suoi toni non mi piacciono: sono i toni di Previti, quando diceva: non faremo prigionieri. Mi piace come si muove, la sua velocità, che talvolta nasconde nei fallimenti. Ma gli riesce bene di essere veloce, così come gli riesce bene dire tutto e il contrario di tutto». Alla fine anche lui ammette di essere stato «rottamato». Nessun dirigente pd che lo chiama per chiedergli: «Come stai?». Nessuno scrive allo sceriffo.