Don Cuba. Il prete volante e quel Chianti dove oggi riposa
Metropoli, 18-06-2010, Jacopo Nesti
Il “prete volante”, titolava la didascalia della contro copertina de “Ladomenica del Corriere” dell’ 11 maggio 1952, a commento dell’insolito disegno di Walter Molino, nel quale un giovane prete, in tonaca e coppola, in sella ad una bicicletta da corsa staccava agilmente in salita un «gruppo di giovani comunisti », come riportava il giornale. Neppure fosse Gino Bartali. Quella pagina, che ancor oggi sembra un’invenzione di Guareschi, costituisce indubbiamente la più efficace epitome iconografica di don Cuba, al secolo Danilo Cubattoli. Ma non c’è da stupirsi, lui era così. In quello scatto sui pedali c’era infatti tutta la sua voglia di superare anche fisicamente i numerosi steccati che la società produce, le tante frontiere che dividono gli uomini, li separano, li contrappongono nella diffidenza, nella paura e poi nell’odio. Lui volle farsi ponte con tutto se stesso, mettendo in gioco anche il suo corpo, senza risparmio, unire le persone attraverso l’amore del Cristo. A partire da quel soprannome, il Cuba, appiccicatogli dai giovani di San Frediano per ridurre le distanze con il sacerdote, che dopo la rivoluzione Castrista diventò quasi un manifesto, colorandosi di sfumature politiche che il suo impegno pastorale trascendeva in ogni direzione, sciogliendo le distinzioni ideologiche, seguendo un’istintiva ispirazione all’incontro con il prossimo. A scavare nel ricordo della figura del sacerdote nato il 24 settembre del ’22 a San Donato in Poggio e scomparso nel 2006 è il giornalista Maurizio Naldini che ha da poco pubblicato per Sarnus “DonCuba – scritti e testimonianze&r
dquo;. Il libro che costituisce un’in edita biografia ripercorre la storia del prete attraverso il racconto delle pagine più significative della sua vita. L’infanzia a San Donato in Poggio segnata dalla scomparsa della madre Adele, quando lui aveva appena tredici anni, la cui morte – come amava ricordare lui stesso – lo aveva spinto a diventare prete. Poi gli anni della sua formazione religiosa, dal seminario fino all’ordinazione nel 1948 in Duomo a Firenze, sotto l’ala protettrice del cardinale Elia Dalla Costa che in quegli vedeva fiorire nella sua diocesi una nuova generazione di sacerdoti, come don Lorenzo Milani e padre Ernesto Balducci, destinati a lasciare un segno indelebile nella storia italiana. Poi le prime esperienze parrocchiali fino all’approdo a San Frediano, dove incontra la gioventù abbandonata e dolente di quel quartiere che lo eleggerà a proprio faro morale, religioso e umano. Accanto alle numerose iniziative pastorali, spiccano nella biografia di don Cuba capitoli insoliti per la vita di un sacerdote. Non solo l’amore per lo sport che si era manifestato fin da giovane, nel ciclismo, appunto, come pure nel calcio. Ma anche l’amore per i viaggi, con i quali don Cubattoli intendeva diffondere il messaggio evangelico con la sua fede e il suo altare da campo, pronto a dir messa in capo al mondo. E in capo al mondo, o quasi, si spinse nel 1954quando, partito da Firenze insieme al giovane amico Steve (alias Stefano Ugolini, all’epoca ventiquattrenne), raggiunsero dopo un estenuante viaggio a cavallo di due moto, stile easy rider, il Kilimangiaro. Di quella meta c’è una foto che testimonia appunto don Cubattoli sol
levare al cielo il calice liturgico della messa, a quasi 6.000 metri, in cima alla montagna più alta dell’Africa. Se quelle dei viaggi sono pagine appassionanti che sembrano però alimentare l’immagine di un sacerdote incline alle missioni spericolate, quasi in cerca di una spettacolarizzazione del proprio sacerdozio,l’intensa attività all’interno delle carceri restituisce invece un’immagine opposta, di intensa partecipazione alle sofferenze degli ultimi. Infatti don Cuba è stato per oltre 50 anni il cappellano degli istituti di pena delle Murate, Santa Verdiana e Sollicciano. In quest’ultimo carcere conobbe Pietro Pacciani del quale diventò prima confidente e poi addirittura amico, riuscendo ad ignorare la maschera di “mostro”che l’intera società aveva appiccicato all’ex contadino di Mercatale. Molti gli chiederono conto di quella amicizia, ritenendo Pacciani una persona ignobile, indegna di ricevere le sue attenzioni. Alla loro contrarietà lui era solito rispondere: «È anche lui un figlio di Dio, e fra i figli di Dio nessuno è un mostro». Da ultimo suo amico sarà lui a celebrarne il funerale nella chiesa di San Casciano il 25 febbraio 1998. Nell’omelia funebre di don Cuba c’è un passaggio significativo. Un passaggio che rivela la sua grande capacità di sentire e farsi carico delle pene umane, e spiega così la ragione dell’affetto smisurato che i carcerati gli hanno sempre manifestato: «Dio non disprezza nessuna delle sue creature, e le ama. Noi tutti siamo pronti a condannare, ma cosa sappiamo della sofferenza di questa creatura?