Nuove archeologie. Pirandello e altri scritti
Belfagor, 31-03-2010, Niccolò Scaffai
La bravura dell’archeologo non consiste tanto nel portare alla luce il reperto tutto intero e assoluto, quanto nel mettere in relazione i frammenti, nell’individuare la successione degli strati, per riconoscere dov’è possibile una coerenza nella varietà. Il processo induttivo non esclude poi le integrazioni, sollecitate da ulteriori sondaggi. L’«archeologia» letteraria di Elio Providenti è un esercizio di questa specie, basato cioè sullo «scavo» documentale, che provvede di un sostanzioso alimento la ricostruzione storica e la riflessione critica intorno ad autori eminenti (in primis Pirandello) e figure più appartate del panorama letterario italiano otto-novecentesco. Si capisce, ad esempio, perché il dialogo epistolare, segno della relazione tra due soggetti, registro di giudizi immediati e fonte di dati altrimenti irrecuperabili, sia tra le risorse cui Providenti attinge più spesso.
Il metodo era già stato messo a punto nelle sue precedenti Archeologie pirandelliane del 1990, seguite da altri saggi sull’autore pubblicati in «Belfagor» e ora raccolti in questi nuovi studi. Pirandelliana è appunto il titolo della prima e più ampia sezione del volume, aperta dal testo e dalla relativa traduzione italiana di una lettera da Bonn datata «13.6.91», inviata allo scrittore da una ragazza renana, Jenny Schulz Lander. La lettera, che raggiunse Pirandello in un momento critico segnato dal rientro in Italia dalla Germania, dal sovvertimento di antichi impegni privati non più attuabili e dalla definitiva «conversione» artistica, emerge dalle carte di Anna, sorella dello scrittore e nonna dello stesso Providenti. La circostanza biografica, unita alla specifica competenza sulle lettere pirandelliane (Providenti ha curato l’edizione in tre volumi dell’Epistolario familiare giovanile), rende particolarmente vivida e partecipe la ricostruzione del contesto fino alla ricerca dei moventi esistenziali che segneranno la personalità di Pirandello: «i primi fili di una trama sempre più ingarbugliata che, annodandosi coi sentimenti e con gli affetti, confondendosi con il siciliano senso della roba, generando ed esacerbando malintesi, odii ed egoismi, esploderà infine in una miscela di sofferenze, di disperazione e di follie».
In Germania, com’è noto, Pirandello perfezionò gli studi linguistici avviati in Italia, acquistando una competenza e un gusto che più tardi avrebbero dato i loro frutti nella scrittura d’invenzione. Ma intanto, nel 1890, il giovane letterato interveniva sul periodico «Vita Nuova», fondato dai fratelli Orvieto, con un articolo acuto e pugnace intitolato Prosa moderna. Obiettivo polemico dello scritto era l’uso di una lingua paludata e libresca da parte degli intellettuali italiani: questione annosa e addirittura secolare, autorevolmente rinnovata da Ascoli nel famoso Proemio all’«Archivio glottologico italiano», che Pirandello tenne presente e citò nel suo pezzo. Prosa moderna suscitò la reazione del fiorentino Pietro Mastri, avvocato-poeta di una qualche notorietà nell’ambiente letterario toscano, in disaccordo con Pirandello non tanto sulla generale denuncia degli anacronismi linguistici, quanto sull’equiparazione – proposta en passant nell’articolo – del fiorentino ad altri dialetti italiani. La «polemichetta» non impedì che tra i due nascesse, più tardi, un’amicizia epistolare, di cui danno conto le sedici lettere di Pirandello pubblicate qui da Providenti. Incentrate prevalentemente sulla produzione poetica dei due
interlocutori, le lettere contengono giudizi spesso pungenti e ironici, anche nei confronti dello stesso Mastri, di cui si sottolinea «qualche atteggiamento di moda, come – ad esempio – quelle non infrequenti interrogazioni tra parentesi o anche senza parentesi (era questo? Era quest’altro? – a cui il lettore potrebbe rispondere – E che ne so io?)». «Vezzi, maniere troppo usate» – scrive Pirandello all’amico – «che Ella, senza rimetterci nulla, ... avrebbe potuto lasciare al Pascoli e al D’Annunzio, la cui arte io, com’Ella sa, detesto». Questa e altre «botte» (come quelle contro i vers-libristes e i loro scimmiottatori italiani) rivelano un’insofferenza verso infingimenti e stereotipi, alla base della rivoluzione umoristica  che cova proprio negli anni del carteggio con Mastri: nella lettera del 16 aprile 1901, ad esempio, Pirandello annuncia di aver scritto tante poesie da mettere «su forse tre volumi», alcune delle quali «insolitamente umoristiche».
Oltre che in verticale, verso gli strati profondi in cui è depositata l’esperienza personale e culturale del giovane Pirandello, Providenti lascia che lo scandaglio muova in orizzontale, fino a toccare figure oggi malnote che entrarono tuttavia in diretta relazione con l’autore. Tra queste vi è Antonino Campanozzi, cui è dedicato il capitolo L’amico socialista. Già «scoperto da Providenti in una sua precedente monografia (Pirandello impolitico, Roma, Salerno, 2000), il nuovo saggio illumina la vicenda politica e intellettuale di Campanozzi (cui lo scrittore regalò il manoscritto del Fu Mattia Pascal, ora ad Harvard) dopo l’adesione di Pirandello al fascismo e la conseguente interruzione dei rapporti tra i due amici.
È ancora un’amicizia a fornire l’occasione per l’indagine critica e storica di cui dà conto il capitolo successivo: I due amici, appunto. Già apparso su «Belfagor» con altro titolo, il saggio è quello che ha conosciuto le modifiche più radicali nella nuova versione, come riconosce lo stesso autore. Ne sono protagonisti, insieme a Pirandello,  Angelo Fortunato Formiggini, l’editore dei celebri Classici del ridere, cui anche di recente è stato riconosciuto un ruolo di primo piano nello sviluppo di un moderno umorismo italiano; e Felice Momigliano, mazziniano, interventista nel ‘15, collega di Magistero di Pirandello e amico comune dello scrittore e di Formiggini. La vicenda rievocata nel saggio riguarda la mancata rappresentazione di Liolà, in programma al Teatro Argentina di Roma il 6 novembre del 1916 e all’ultimo momento sostituita da una versione comica del Ratto delle Sabine. Nel frattempo però Momigliano, su richiesta dello stesso autore, aveva invitato Formiggini ad assistere alla commedia pirandelliana. L’editore avrebbe infatti dovuto pubblicare il testo di  Liolà, impegno finalmente adempiuto nel maggio del ‘17, non senza i ritardi causati anche dalla guerra e le necessarie mediazioni di Momigliano. Del resto, come osserva Providenti sulla scorta della biografia di Momigliano curata da Alberto Cavaglion, finché Pirandello non si dedicò pienamente all’attività teatrale il rapporto tra i due colleghi di Magistero fu piuttosto intenso. Ciò avvalora l’ipotesi che testi come la novella Un «goj» risentano della «sapienza ebraica» dell’amico.
Al contesto famigliare dello scrittore si rifà il saggio seguente, che muove ancora da un reperimento documentale: l’Orazione funebre del chiarissimo Mons
ignor Ciantro D. Innocenzo Ricci-Gramitto stampata in un opuscolo girgentino datato 1863. Il Monsignore, spiega Providenti, altri non è che quello Zio Canonico rievocato nelle memorie di Pirandello, a cui l’autore deve più di uno spunto rielaborato in opere come I vecchi e i giovani. L’ultimo capitolo della prima parte (Il sentimento, la logica e la lanterninosofia) prende avvio da una frase scritta da Pirandello nella lettera del 16 agosto 1918 a Sabatino Lopez, direttore generale della Società italiana degli autori: « non le idee ma il sentimento crea la realtà». Un concetto simile era già stato espresso da Pirandello in un passo del saggio La menzogna del sentimento nell’arte (1890) e, più tardi, nel Fu Mattia Pascal e nei Vecchi e i giovani, dove appare chiaramente che «anche la coscienza per l’agrigentino, come il dovere, come le idee, sono superfetazioni create dall’uomo civilizzato, che nulla hanno a che vedere col sentimento». A tale riguardo, il pensiero pirandelliano trova una postuma corrispondenza con le opinioni espresse da Norberto Bobbio in uno scritto su Religione e religiosità,r apparso su «Micromega» a metà del 2000. Accostando passi di quell’articolo con il celebre brano della lanterninosofia nel Fu mattia Pascal, Providenti ricava una convincente definizione della «religiosità» pirandelliana come senso del mistero, coscienza di un «oltre».
La seconda parte, più breve, del volume riguarda Luigi Capuana, Luigi Antonio Villari e Giuseppe Mazzini. Villari, letterato napoletano nato nel 1866, si rivolse nel 1894 al più anziano e autorevole Capuana per offrirgli alcuni documenti sullo spiritismo, argomento notoriamente caro allo scrittore siciliano.
Come attestano le ventitré lettere di Capuana qui pubblicate, la proposta di Villari fu accolta con molto favore e rappresentò l’occasione di un primo contatto epistolare rinnovato negli anni, fino al 1911 (data dell’ultima missiva, un telegramma, spedito dallo scrittore al più giovane amico). Il tenore delle lettere è vario, alternando agli accenti di amicale confidenza (Capuana si spinge fino a chiedere e parzialmente ottenere un prestito da Villari), riflessioni di carattere letterario e culturale in genere.
L’ultimo capitolo (Mazzini a Roma nel 1849), certamente stravagante e forse non del tutto intonato con il resto del libro, si distingue a ben guardare più per l’oggetto che per il metodo. Nell’attività di Mazzini, la scrittura letteraria non fu centrale come per Pirandello e Capuana, è vero, ma non è di questo che tratta Providenti, che lascia qui nettamente prevalere la vena storico-documentale rispetto a quella critica. All’autore interessa piuttosto garantire l’accertamento attraverso l’incrocio dei dati e la restituzione dei contesti. La questione riguarda le vicende della Repubblica romana nel primo semestre del 1849 e, in particolare, la presunta permanenza in quel periodo di Mazzini al Quirinale: notizia che Providenti dimostra infondata.
L’Appendice di documenti che completa il volume include la riproduzione della lettera di Jenny Schulz Lander, di alcune lettere a Pietro Mastri e della recensione di Capuana alle Memorie di Oliviero Oliveiro di Villari, apparsa su «La Tribuna» del 1°giugno 1900. In chiusura, conviene forse adattare come esergo delle felici archeologie di Providenti giusto un passo della prefazione di Villari alle Memorie, già ripreso nell’articolo di Capuana: «È il vero, ma visto da una lente speciale, e conviene che il lettore si abitui a adoprarla».