È “santo” pure per noi
Secolo d’Italia, 14-02-2010, Mario Bernardi Guardi
La destra italiana non ha mai sopportato Giorgio La Pira, ma è arrivato il momento di  rivalutare quel “comunistello da sagrestia”
Negli anni della guerra fredda, delle dure contrapposizioni ideologiche, delle identità/appartenenze politiche nettamente caratterizzate e conflittuali, era inevitabile che sul capo di un “irregolare” come Giorgio La Pira piovessero epiteti tranchant. Alla destra fieramente anticomunista non piaceva infatti per nulla quel professorino siciliano approdato da Pozzallo (Ragusa) a Firenze, che, pur appartenendo allo Scudo crociato (e questo avrebbe dovuto significare difesa a oltranza della Cristianità, della democrazia, della libertà e dell’Occidente contro la minaccia “rossa”), pareva rincorrere un suo stravagante disegno politico, fondato più sull’“et et” che sugli “aut aut”. No, il professor Giorgio La Pira, docente di Diritto romano all’Università di Firenze, parlamentare Dc eletto all’Assemblea Costituente per due volte (1951-58 e 1961-65) amato e chiaccherato sindaco della Città Gigliata, davvero non le andava giù. Non c’era da fidarsi di quel visionario che parlava di giustizia sociale e di pace, che stava sempre dalla parte degli “sfruttati” contro gli “sfruttatori”, che guardava al Terzo Mondo e al Mediterraneo, che pareva non troppo convinto del “patto d’acciaio” Italia-Usa e che addirittura sposava la causa delle lotte di liberazione nazionale anti-yankee, e si permetteva l’azzardo di una politica estera “fiorentina” aperta all’Est. E poco valeva che sulla cristallina onestà dell’uomo non ci fosse nulla da dire e che opere e giorni di Giorgio La Pira si rivelassero davvero francescanamente “immacolati”.
Il professore viveva in cristiana povertà? Teneva per sé lo stretto necessario e il resto lo dava ai poveri? Non aveva neppure un bel “completo” adatto alle grandi occasioni? Tutto vero, per carità, ma restava un tipo “pericoloso”. E fioccavano gli “apprezzamenti”: «Comunista bianco», «comunistello da sagrestia», «utile idiota» (idiota utile alla politica spregiudicata del Pci). Nel migliore dei casi un matto, una specie di Savonarola del XX secolo che, al pari del domenicano ferrarese, il classico “profeta disarmato” messo alla berlina da Niccolò Machiavelli, non aveva la minima idea di che cosa fosse una politica realistica e non si rendeva conto che di “buone intenzioni” (bianche) poteva ben esser lastricata la “via dell’inferno” (rosso).
Eppure, per tanti La Pira era un “santo”, anzi “il Sindaco Santo”. Uno, poi, che, come intellettuale e politico, era difficile classificare, visto che tra i fervorosi cattolici che facevano capo all’”Ultima” (la rivista intorno alla quale dialogavano, pur in quegli anni così aspramente rissosi, studiosi del differente/divergente profilo come Attilio Mordini ed Ernesto Balducci, Mathias Vereno e Davide Maria Turoldo, Adolfo Oxilia e Mario Gozzini, Maurilio Adriani e Vittorio Vettori) c’era anche lui e che – anche su questo non ci potevano esser dubbi – l’uomo non era solo un “poverello di Cristo” dalla fede generosa e appassionata, ma un fior di studioso, armato di solida dottrina. Tutt’altro che un vaporoso sognatore, dunque, ma un rigoroso e ben ferrato discepolo di San Tommaso d’Aquino, un “realista cristiano”, un “personalista”, vicino ai “percorsi” di Jacques Maritain e di Emmanuel Mournier. Ed è proprio questa l’immagine che vien fuori da uno studio di La Pira, Il valore della persona umana, apparso per la prima volta nel 1947, poi in seconda edizione nel 195 ed ora riproposto dalla Polistampa, con una introduzione di Vittorio Possenti (pp. 144, euro 12).
È importante ricordare con Nicola Abbagnano (Dizionario di filosofia) che il personalismo come dottrina etico-politica «insiste sul valore assoluto della persona e sui suoi legami di solidarietà con le altre persone, in polemica contro il collettivismo, da un lato, che tende a vedere nella persona nient’altro che una realtà numerica, e l’individualismo dall’altro, che tende a indebolire i legami di solidarietà tra le persone». Quanto a Maritain, nel Dizionario italiano dei filosofi contemporanei, Pier Angelo Rovatti scrive: «La s
ua ripresa del tomismo si delinea soprattutto per la forza con la quale al soggettivismo idealistico di derivazione cartesiana viene contrapposto un radicale realismo: la conoscenza si fonda su una presenza originaria delle cose alla coscienza, . il cui primo atto consiste nell’aprirsi all’ente, nel diventare altro da sé». E Mounier? A proposito del fondatore della rivista/movimento Esprit, così scrive Vittorio Possenti nel saggio Dentro il secolo breve, presentato il 28 gennaio all’Istituto Internazionale Jacques Maritain di Roma: «Il polo animante del personalismo mouneriano degli anni ’30 o la sua “intentio” è individuato nel cristianesimo: più che un personalismo primariamente metafisico e/o morale, il suo è un personalismo cristiano, che elabora l’impronta specifica che il cristianesimo dà alla filosofia della persona. Il centro di questo personalismo teologico sta nell’assunto, vero cardine della teologia cristiana contro ogni sapienza pagana d’ora innanzi spossessata, che la persona è in rapporto immediato con Dio, “nulla interposita natura” (Sant’Agostino). Quale distanza dalla vulgata antropologica attuale in cui la persona è un momento transeunte e meramente organico-vitale dell’evoluzione della vita, e non è in rapporto con alcuna trascendenza!».
Bene, Giorgio La Pira, quando, agli inizi degli anni Quaranta, comincia a scrivere il suo libro, si muove appunto entro un orizzonte realistico e personalistico che va da Tommaso a Maritain e Mounier. Ovviamente con forti agganci alle contingenze storiche, nel senso che ritiene che occorra, come ha spiegato Possenti, «riabilitare contro le tendenze che ipostatizzano illegittimamente enti astratti ed accidentali – l’idea, il divenire, il tutto, la razza, lo stato, la classe ecc. – l’intrinseco valore dell’essere individuale: l’unica realtà sostanziale, per sé sussistente, è questa». Un La Pira, dunque, che si pone contro ideologie “totali”: il fascismo con lo Stato etico; il nazismo con la razza; il comunismo con il materialismo storico-dialettico e la lotta di classe. Ora, tra il 1943 – la data in cui sarebbe dovuto uscire il libro – e il 1947 – la data in cui viene finalmente dato alle stampe – intervengono molte cose: il crollo del fascismo e del nazismo, la vittoria delle democrazie occidentali (ma anche del comunismo sovietico), la fondazione dell’Onu: e si sta ponendo mano alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Tutto bene, dunque?
Tutti d’accordo sul fatto che il fine della vita sociale è subordinato al fine dell’essere umano, che, nella politica, è il bene comune e, oltre la politica, è Dio stesso? E che la legge e il diritto, posti a tutela della persona, debbono richiamarsi ai diritti naturali? Lo scenario è frastagliato: le domande sui “destini dell’Occidente” poste dai “filosofi della crisi” – Spengler, Belloc, Huizinga, Berdjaeff – hanno ancora ragion d’essere. Ma la coscienza del dramma non può diventare la via senza uscita in cui l’uomo è condannato. Gli interrogativi lapiriani, ricorda Possenti, sono molti: il Cristianesimo sta tramontando? L’uomo si troverà sempre di più severamente limitato entro gli orizzonti della storia? Aveva ragione Hegel nel considerare accidentale l’individuo umano? E con lui Marx che pensava l’individuo come pienamente mortale e mèro punto di addensamento fuggitivo di rapporti sociali? No, non avevano ragione. Attraverso loro né l’uomo né la società si liberano e crescono. Anzi. E allora? E allora bisogna tener ben ferma la diagnosi fondata sui tre pilastri del Dio trascendente e personale, dell’anima immortale, della legge mortale che da Dio deriva, lasciando da parte il sistema teoretico kantiano in cui quei pilastri cedono; le idee di Rousseau e degli altri illuministi che troncano brutalmente il legame tra ordine naturale e ordine soprannaturale; la riforma protestante che spezza l’integrità dell’uomo, separando natura e grazia, ovviamente tutte le presunte “rivoluzioni” che si oppongono all’umanesimo integrale. E cioè alla grande sintesi cattolica: Dio e uomo, filosofia e teologia, natura e grazia, terra e cielo. Nonché ferma difesa della persona schiacciata dagli ingranaggi del capitalismo e dell’industrialismo, e dai miti dello Stato
, della razza, del Partito, della collettività ecc. La Pira come “tradizionalista”, aperto ai nuovi contributi della speculazione filosofica? E dunque ai personalisti, ma anche agli esistenzialisti, con riferimenti al “singolo” di Kierkegaard e all’”esserci” (Dasein) di Heidegger? Di sicuro, l’ardente “giullare di Dio” ritiene, come osserva giustamente Possenti, che si debba ritornare all’uomo, facendo perno sull’azione cristiana, sull’idea che la grazia sana e feconda la natura umana, sulle “testimonianze” di Sant’Agostino, San Tommaso e Pascal più che su quella di Socrate.
San Tommaso, innanzitutto, «oltrepassando la soglia fredda e geometrica della “Summa” ed entrando nel chiostro dove è potenzialmente elaborato il mistero cristiano di creazione, peccato, grazia, incarnazione. In tal modo, Dio, il mondo, l’uomo, la legge, la grazia, la società, tutto è collegato in un sistema armonioso che è davvero un riverbero della scienza di Dio nella mente dell’uomo». Trasalimenti mistici? Spirituali “follie”? Slanci visionari? È un sogno pretendere di edificare sopra la base metafisica le soluzioni civili, ed opporsi ad Hegel, Marxe, Comte e al “tutto nello Stato” totalitario? E regge l’affermazione che l’uomo “non “ è un mezzo e la società “non” è un fine, ma l’esatto contrario?
Nel suo personalismo ontologico e nel suo teocentrismo («niente può quietare la volontà dell’uomo se non il bene universale, che non si trova in alcuna cosa creata ma solo in Dio»; «La persona umana è voluta in vista di se stessa, non come mezzo per altro»), La Pira può sembrare un “inattuale” assoluto, che parla un linguaggio lontanissimo da noi. Poi, però, scavando dentro le sue parole, ci accorgiamo che, morti i totalitarismi, nella cosiddetta era post-ideologica, sono in piedi i tentativi di conquistare la persona attraverso strumenti che potrebbero risultare ancor più pericolosi delle ideologie e delle mitologie di massa: la tecnica, le neuroscienze, l’ingegneria genetica, l’eugenetica, la clonazione. Con i possibili punti di approdo di una «naturalizzazione dell’uomo, inteso come elemento risolvibile nel ciclo della natura e di una onnipervadente demoralizzazione umanistica».
Temi e tesi discutibili quanto si vuole, ovviamente, e addirittura ribaltabili per chi scommette sulla possibilità di “cavalcare” tutte le “tigri” e più che mai quelle del progresso, della modernizzazione, della tecnologia avanzata ecc. Temi e tesi con cui bisogna, comunque, fare i conti. E più che mai farli se si ha cara la sfida delle “nuove sintesi”. E se si guarda, quindi, a taluni testimoni del secolo e a talune esperienze di pensiero con vocazione trasversale e con seria e serena volontà di capire e di approfondire. Allora ha ragione Franco Cardini nel sostenere che La Pira va riscoperto e ripensato. Più che mai “da noi”. Va riscoperto il “sindaco santo” impegnato nella “ricostruzione” di Firenze, a partire dai ponti distrutti dalla guerra, dalla riedificazione del teatro comunale, dalla creazione del quartiere satellite dell’Isolotto, dalla costruzione di case popolari. Il “comunista bianco” (o, perché no?, il “fasciocomunista” o solo e unicamente il “cristiano”) che si prende a cuore il problema degli sfratti, che fa requisire gli immobili, che difende i posti di lavoro degli stabilimenti Pignone, che, a chi lo accusa, replica: «Non potete chiedermi di non interessarmi alle creature senza lavoro e senza assistenza! Cosa deve fare il sindaco? Può lavarsi le mani dicendo a tutti: scusate, non posso interessarmi a voi, perché non sono statalista, ma interclassista?». La Pira sentiva come proprio dovere “intervenire”. Era un antifascista, ma “mussolinianamente”, e al pari di un altro antifascista, Enrico Mattei, credeva nel destino mediterraneo dell’Italia. Andava in giro per il mondo – anche in Russia, ma col permesso del Papa! Addirittura ad Hanoi in piena guerra del Vietnam! -, apriva Firenze al mondo, non voleva piacere né compiacere questo o quell’altro padrone “internazionale”. Un pazzo che faceva scandalo. O davvero un profeta, lungimirante, e tutt’altro che disarmato?