Gli scacchi come metafora e filosofia
Metropoli, 24-11-2009, Jacopo Nesti
Quale vertigine filosofica si nasconde dietro l’idea di libertà del giocatore, che crede di giocare autonomamente, quando forse anch’egli è un pedone di un’altra partita? 

La nascita degli scacchi è avvolta nel mistero, e fin dall’inizio la loro comparsa sembra intrecciarsi in maniera obliqua e potente con la realtà. La leggenda più accreditata racconta infatti che un re indù, di nome Iadava, per difendere il suo regno, fu costretto a compiere un’azione strategica in cui il figlio perse la vita. Nonostante la vittoria, i sensi di colpa per il suo sacrificio iniziarono a tormentare il re. Nessuno riusciva a mitigarli. Un giorno però giunse a palazzo un bramino, Lahur Sessa, che per distrarlo gli presentò una sua invenzione: il gioco degli scacchi, che in breve lo appassionò. Ma il gioco realizzò anche un altro miracolo: partita dopo partita il re comprese, mettendo fine alla sua pena, che non poteva vincere quella battaglia senza sacrificare un pezzo, ovverosia suo figlio. Quando gli domandò quale compenso volesse, rise della risposta del bramino: «Tu mi darai un chicco di grano per la prima casella, due per la seconda, quattro per la terza, otto per la quarta e così via». Dovette però ricredersi in fretta quando un matematico di corte gli spiegò che non sarebbero bastati i raccolti di tutto il regno per ottocento anni. Aveva chiesto una quantità equivalente a 2 elevato a 64, un numero enorme, a 20 cifre. Il libro che presentiamo oggi, Stallo matto (edito da Polistampa, 112 pagine) si inserisce nel solco dello stupore che il gioco degli scacchi da sempre hanno esercitato, alimentando infinite associazioni con la realtà e la fantasia. Nel testo che presentiamo di seguito l’autore, Giovanni Gualtieri, affronta le suggestioni filosofiche fiorite sulla scacchiera, a partire dal vertiginoso gioco prospettico immaginato dal grande scrittore Jorge Luis Borges.  È oggettivamente assai difficile trovare un gioco, come quello degli scacchi, fatto oggetto di tanta attenzione nel corso dei secoli da parte dell’arte, della letteratura e in generale del sapere umano. Fin dagli albori della sua diffusione, la guerra tra eserciti contrapposti sulla scacchiera è stata sintomaticamente interpretata come metafora delle dinamiche manichee dell’universo, dell’eterna lotta tra il bene e il male, tra l’apollineo e il dionisiaco, tra la vita e la morte, e persino dell’uomo contro se stesso. Se ci si riflette con attenzione, le proprietà metaforiche associabili al “Nobil Giuoco” sono praticamente infinite, investendo la vita dell’uomo nella sua interezza, dalla dimensione del suo quotidiano a quella, ben più complessa, del suo esistere nell’universo ed esser “calato” nel Tempo. È per questo che cercare d’enucleare solo alcuni dei simbolismi intrinseci degli scacchi sia praticamente come versare una goccia d’acqua nell’oceano; allo stesso modo, ciascuno può soggettivamente rinvenire nel gioco le metafore più affini alla sua intuizione o alla sua sensibilità. Gli scacchi sono una sorta di libro aperto dell’umanità, e pertanto è non solo riduttivo ma persino fuorviante, parlarne banalmente in termini di gioco e non, piuttosto, di vera e propria tematica o addirittura filosofia. Nessun altro tema vede infatti una tale compenetrazione di scienza e filosofia, matematica e poesia, estetica e psicologia, simbolismo ed esoterismo, logica ed arte; non sorprende, quindi, l’interesse che da sempre ha suscitato in filosofi, artisti, matematici, scritto
ri, mistici e poeti di culture e tempi così diversi tra loro, tutti accomunati da un’unica lingua, un unico codice, un’unica – quasi – ontologia. Peraltro, l’immagine del giocatore di scacchi che, ponderando sulla mossa successiva, arresta lo scorrere del tempo in una sospensione dalla vita reale, è curiosamente assai simile a quella del filosofo che medita atemporalmente sul senso della vita e dell’essere nel mondo. Tanto nello scacchista che nel filosofo si percepisce la medesima distanza dal consorzio umano, il medesimo isolamento dal mondo della quotidianità, che viene messo fra parentesi per vivere in un mondo ideale ad esso del tutto estraneo; eppure, sono sorprendentemente proprio questa distanza e questo isolamento, ad avvicinare come null’altro l’uomo al senso dell’esistenza e dell’essere. È forse anche per questo, che l’equazione “scacchi = filosofia” appaia la più scontata che si possa immaginare, quasi un teorema che non richieda neanche d’esser dimostrato. Ma c’è di più: è proprio analizzando gli infiniti significati reconditi nascosti negli scacchi, che si possono trovare le risposte agli eterni interrogativi che hanno afflitto e al contempo sedotto i filosofi d’ogni epoca. Ad esempio, gli scacchi spiegano la contrapposizione tra apollineo e dionisiaco cara a Nietzsche, o la visione di Eraclito secondo cui Polemos sia il padre e il re di tutte le cose. Addirittura, forse il famigerato “linguaggio” che Heidegger vanamente si sforzava di cercare per spiegare il senso dell’essere, nella sezione conclusiva di Essere e tempo, è proprio la dialettica espressa dagli scacchi, o più precisamente, quella dello scacco matto. Tra gli scrittori sensibili alle stringenti implicazioni filosofiche degli scacchi, un posto di rilievo merita senz’altro Jorge Luis Borges, tra i più brillanti scrittori latino-americani di tutti i tempi. In lui la vita stessa è un’interminabile partita a scacchi, le cui indeterminate e imprevedibili possibilità non indicano un libero arbitrio, da parte dell’uomo, bensì il suo essere assoggettato ad una volontà superiore incarnata da Dio o dal destino, il cui arbitrio è a sua volta condizionato forse dall’imperscrutabile volere di un altro dio, in un diabolico gioco di scatole cinesi la cui causa prima rimane sconosciuta. Al pari delle azioni umane, anche le mosse possibili sulla scacchiera sono come gli atomi del mondo e le loro possibili permutazioni: di un numero smisurato, certo, ma pur sempre finito. Tra le opere che più esplicitamente illustrano le sue analisi, troviamo due sonetti non a caso intitolati Scacchi. Di particolare interesse è la seconda della serie: Vulnerabile re, sinistro alfiere, spietata / regina, rigida torre e accorto pedone / sul nero e il bianco del cammino / cercano e sferrano la loro battaglia armata. / Non sanno che la mano precisa del giocatore / governa il loro destino, / non sanno che un rigore adamantino / ne soggioga l’arbitrio e la fortuna. / Ma anche il giocatore è prigioniero / (Omar lo dice) di un’altra scacchiera / di nere notti e bianchi giorni. / Dio muove il giocatore, e questi il pezzo. / Quale dio prima di Dio la trama ordisce / di polvere e tempo e sogni e agonie? In accordo con la filosofia taoista ed eraclitea, per Borges i principi opposti sono l’uno dipendente dall’altro, e quindi non è concepibile che l’uno possa prevalere sull’altro. Il fine dell’atemporale battaglia è infatti la battaglia stessa, che seppur non è eterna, in eterno si ripete. Gli scacchi d
iventano anche il simbolo del tempo, la cui paradossalità per l’umanità è quella stessa del gioco. Ma il tema centrale dell’opera è senz’altro la sua inquietudine filosofica sulla libertà dell’uomo. I pezzi sulla scacchiera sono delle mere figure asservite alla volontà dei giocatori, la cui mano ne determina il destino; ma anche il giocatore è prigioniero, su un’altra scacchiera, quella del volere di una divinità che ne limita l’arbitrio e ne determina il destino. A questo punto il tema centrale della poesia si manifesta con una domanda in cui confluiscono i grandi temi della filosofia e della religione. Chi è il dio che prima di Dio dà inizio alla trama? Chi è cioè il giocatore che gioca a scacchi con Dio stesso e la cui scacchiera è l’universo? Borges raffigura in questa lirica l’intero universo come una serie indefinita di scacchiere contenute l’una nell’altra e i cui pezzi sono a loro volta burattini e burattinai di un’altra partita. In questa serie di geniali intuizioni pare affrescata con straordinario acume la condizione esistenziale dell’uomo, che s’illude di giocare col destino da pari a pari la partita della propria vita, mentre in realtà le sue mosse obbediscono al disegno d’un Dio che ne ordisce la trama. Sulla scacchiera nera e bianca della sua vita, l’uomo si dibatte tra “nere notti e bianchi giorni” illudendosi pateticamente di poter determinare il proprio destino coi suoi sforzi e le sue capacità, ignorando d’essere in realtà un mero burattino che soggiace ai voleri d’un invisibile burattinaio. Egli s’illude d’incidere, d’essere determinante per la propria vita, ma in realtà la sua partita è un pro forma, perché l’esito è già deciso. L’uomo di Borges perde così le qualità di artefice del proprio destino che il Rinascimento gli aveva conferito; viene detronizzato dal posto d’onore che si riteneva occupasse nell’universo, per confondersi in esso ed incarnarne quasi un accidente determinato da leggi a lui superiori ed imperscrutabili. Attraverso il parallelo con gli scacchi, Borges risolve pertanto come un’illusoria prerogativa umana, quella del libero arbitrio, e non a caso fa risalire l’origine del Nobil Giuoco proprio ad Adamo. Ma la cosa più inquietante, per Borges, è che non esiste neanche il libero arbitrio di Dio! Borges detronizza non solo l’uomo e le sue certezze illuministico-rinascimentali, ma anche Dio e la sua presunta signoria sul tempo e sull’universo. Da questo quadro l’uomo esce doppiamente sconfitto: Borges si fa infatti beffe non solo del determinismo scientifico dell’uomo e di tutte le sue presunzioni antropocentriche, ma anche della fede dell’uomo in un’entità suprema che tutto governi con saggezza ed equanimità e nella quale riporre la fiducia più incondizionata. Domandandosi quale dio prima di Dio ordisca la trama, è quasi come se ci si domandasse: «Chi è alla guida della nave sulla quale stiamo viaggiando? Chi c’è al timone? Pensavamo d’essere nelle mani di Dio, e quindi in buone mani, ma anche Dio come noi è in balia del destino, anch’egli manovrato da un burattinaio che sta più in alto di lui.» Il destino dell’uomo affrescato da Borges è quello di vivere in un’angoscia racchiusa in un’altra angoscia, a sua volta racchiusa in un’altra, quasi si trattasse d’una serie infinita di matrioske che alla fine racchiudono il nulla.