Nessuno è perfetto, neppure Dante
Metropoli, 02-07-2009, Sergio Di Battista
“Lei provi ad entrare dentro un pollaio pieno di escrementi in un giorno rovente di luglio: ecco, quello era l’odore della Firenze del Trecento”. Detta così è un po’ forte ma è il modo diretto ed efficace col quale Riccardo Nencini riassume l’altra faccia, quella meno conosciuta, quasi ignorata, della città, patria del capitalismo finanziario negli anni del suo romanzo appena uscito (“L’imperfetto Assoluto” edito da Mauro Pagliai, 448 pagine, 18 euro). Quella città così diversa dai ricordi liceali dalle cartoline turistiche, che oggi i visitatori stranieri cercano di riscoprire senza sapere che è finta come le scene dei film. Per scrivere il suo ultimo libro, un romanzo storico, che come si legge nella prefazione “non è soltanto tale, ma è anche altre cose, è frutto degli studi, delle fantasie, delle meditazioni di un politico arrivato” Nencini affronta una lunga avventura ricostruita attraverso un antico manoscritto ritrovato a Parigi: ha impiegato sette anni di ricerche negli archivi e poi sette mesi per buttar giù il testo (“Quando? La notte, la domenica”) e questo la dice lunga sulla solidità del racconto e sul suo fascino. È un acuto cronista della storia che cattura il lettore appena “sorpreso e spaurito” dal titolo. “Che cosa è mai L’ imperfetto assoluto – scrive Franco Cardini nella prefazione – quest‘espressione che a prima vista sembra ossimorica e paradossale (l’assoluto non può in sé che essere perfetto e viceversa) se non un’inattesa sorprendente e al fondo tutto ovvia – ed, ebbene sì, perfetta – definizione dell’uomo e della vita? E cosa c’è mai si assoluto nel mondo che ci circonda e nel quale il relativo ci fascia e ci perseguita, se non l’imperfezione?”. Insomma “L’imperfezione come segno dell’umanità”. Svelato il rebus del titolo, ecco la storia, che è un inedito racconto degli avvenimenti avvenuti a Firenze o legati a Firenze tra il 1301 e il 1306, protagonisti date, negli anni più bui – e anonimi e quasi miserabili – della sua vita e Musciatto Franzesi, ricchissimo banchiere che Boccaccio ricorda nella prima novella del Decameron, quella di Ser Ciappelletto. Musciatto, figlio di un bandito, garzone di banca, partito da Figline Valdarno e protagonista di una sorprendente scalata era diventato banchiere del re di Francia, Filippo il Bello e consigliere di suo fratello, Carlo di Valois. Aveva un pensiero fisso: strappare Firenze ai Guelfi neri. “da città del fiore – si legge – Firenze era diventata la citt&a
grave; del pianto e del fetore. La discordi aveva fatto il nido nel cuore dei cittadini... Le mani zozze di fazioni si allungavano ogni dove, insaziabili”. Creativi e litigiosi, quei fiorentini. Al cardinale inviato da Bonifacio VIII, la città era apparsa “come un immenso cantiere... Impalcature si alzavano, torreggianti, dentro e fuori la seconda cerchia, a testimoniare la costruzione di luoghi di culto e di palazzi. A Musciatto, di novo in Toscana Firenze “si presentò nella condizione ideale, florida, magnifica, divisa”. Bella la pagina del ritorno con un groppo in gola al ricordo del primo affare, una truffa ai danni di un venditore provenzale e la visione dalla sommità di un colle, in piedi sulle staffe: “Quanti anni erano trascorsi. Aveva lasciato Firenze alle dipendenze di un banco, vi tornava cavaliere di un re. Musciatto de’ Franzesi o Jean Mouchet, all’occorrenza... Immaginò l’ingresso in città tra ghirlande di fiori, uomini in armi e donne dalle belle forme. Guardò meglio. Le strade animate strette come budelli ma intravedeva anche vie larghe di recente costruzione. E palazzi di qua e di là del  fiume laddove un tempo i campi s’infilavano tra le case orti, vigne, latrine”. In Oltrarno c’era già, larga e spaziosa via Maggio, la prima strada di Firenze ed aver avuto un nome. Lo aveva suggerito uno dei più ricchi mercanti fiorentini, Bonaccorso Velluti, perché le lettere d’affari che riceveva avessero un indirizzo. Da quel momento spiega Nencini Musciatto “è presente in tutti i fatti più importanti che avvengono tra il 1301 e il 1306, dal bando di Dante e del padre di Petrarca allo schiaffo di Anagni fino alla preparazione del processo ai Templari. All’euro di oggi perché Firenze era la patria del capitalismo finanziario, una città verticale grazie alle sue torri (poi, nelle faide, in gran parte abbattute o mozzate, ndr) come Wall Strett, una specie di Dubai immersa nei cantieri delle grandi opere, la fucina culturale che getta i semi della fortuna medicea e del Rinascimento. Ma con una caratteristica particolare purtroppo irripetibile: i mercanti facevano attenzione al loro portafoglio ma anche alla città, potendo vantare uno spiccato senso civico”. Dante in esilio, l’altro protagonista del romanzo, con un volto inedito. “Non è soltanto – dice Cardini – l’Altissimo Poeta, è un uomo in carne ed ossa, un esule, un vinto, un piegato ma non spezzato dalla sorte, uno che ha amato, è stato tradito, forse ha tradito a sua volta, è stato minacciato mille morti e forse ha anche ucciso”. A Campaldino, contro i ghibellini era tra i feditori (sold
ati armati alla leggera) a cavallo. “Uno che ha sbagliato e si è pentito, è caduto e si è rialzato. Un Imperfetto Assoluto. Siamo tutti degli Imperfetti Assoluti”. Nel ibro, alla infinita serie di uomini e di storie che si succedono come in un kolossal cinematografico o, se preferite, in un grande affresco storico che emerge da archivi sommersi, si inseriscono – geniale trovata – l’io parlante dell‘Alighieri accompagnato da quei sonetti che il poeta non ha mai scritto, a illustrare il periodo più oscuro della sua vita. Sono opera di un giovanissimo, un “enfant prodige” si sarebbe detto una volta (ha pubblicato il suo primo libro appena tredicenne), Federico Berlincioni, che con il suo coraggio e la spudoratezza dei suoi ventun anni evoca lo Stilnovo con i versi come questo: “Fiorenza invisa, discordante cosa/di rude pietra ormai e raro avorio/donna bella quanto è in seno ascosa/che almeno quant’io ho in amore odio/ Le genti stolte ne lo stolto errore/germe che ne ammorba il solo, insieme/ a chi pe’ intesa o affetto m’è nel cuore/ van per le vie che conosco bene/ Chissà se d’abbracciali n’abbia speme/quantunque con le braccia non li tocchi/ coloro che di là io amai e conobbi/ che veda ancor nei miei nei loro occhi/ o stia com’era nata senza seme/ se l’ombra mia la loro non adombri”. Musciatto e Dante probabilmente non s’incontrarono mia, non se ne ha notizia, ma non si può neppure escluderlo. Del resto i loro destini si sfiorarono spesso. La sorella di Musciatto, ad esempio, sposò Simone de Bardi che era stato il marito di Beatrice. Il Franzese poi, aveva una grande influenza su Cante de’ Gabrielli, i podestà che condannò Dante all’esilio. E forse si incrociarono sotto le mura del castello di Montaccianico, dove il poeta era tra i fuoriusciti e Muoche guidava i contingenti dei guelfi neri. E su fronti opposti si trovarono quando il crudele podestà influenzato da Musciatto sconfisse a Pullicciano l’esercito allestito proprio da Dante, quando era ambasciatore a Forlì, per Scarpetta degli Oderlaffi. Dante, comunque, sopravvisse una quindicina d’anni a Musciatto che morì in Francia alla fine di un’epoca che aveva mischiato tra tradimenti, battaglie, sanguinose repressioni, guelfi e ghibellini, bianchi e neri, nomi nobili esagerati, il bene e il male di tutti. Non a caso il libro di Nencini sarà presentato  – primo atto ufficiale del nuovo sindaco – da Matteo Renzi la sera di lunedì prossimo (presenti Franco Cardini, Berlincioni, l‘editore Mauro Pagliai) proprio in piazza della Repubblica, dov’era il centro di quella Firenze.