Domenichelli, un po’ di luce per Mogadiscio
ALIAS, 22-10-2005, Viola Papetti
L’ardita Pagliai Polistampa apre la collana di narrativa italiana e straniera «I Coloniali», ben distinti dai vendicativi Post-coloniali. I grandi Coloniali tardo-ottocenteschi gettano la loro ombra sulle pagine dei Neocoloniali: svelti reporters, fiduciosi volontari, avidi cooperanti internazionali, previdenti pensionati che hanno preso casa in isolette con moneta debole e governo forte.
La prima uscita – Mario Domenichelli, Lugemalé (pp.267, € 14,00) – è nel cono d’ombra conradiano. Il titolo in pidgin italo–somalo significa «non c’è luce». Non c’era quasi mai luce nel 1989 a Mogadiscio, alla vigilia della caduta del muro di Barre, e ancor meno l’anno dopo, l’ultimo del regime. La bianca Mogadiscio, accasciata sotto il sole, ricordava la vecchia Italia. Un po’ puerile, un po’ paurosa – «Pare un presepe! Ma senza stella cometa». Con la sua estate mai esaustiva offriva una versione degenerata dell’infanzia, mai stanca di tralignare ciecamente. Nel giro di vite maligno di Mogadiscio tutti sono complici e tutti a turno rimangono mortalmente incas
trati: ormai c’è una notte definitiva. Domenichelli ci ha dato un docu-novel, molto emozionato, del periodo ultimo della Cooperazione italiana presso la prima e unica università mai progettata in quella parte del Corno d’Africa, la «striscia di sabbia». C’erano varie facoltà: la più antica e la più utile, Medicina, e l’ultima, la più difficile da gestire, quella di lingue. Costruita a cerchi danteschi appena fuori dalla città, ormai sarà cumulo di rovine tra cui vivranno accampati uomini e bestie. Resta però «una ferita aperta», la vergogna di un fallimento a cui non si sapeva come opporsi. In Lugemalé quattro personaggi maschili, due del testo-cornice (Tomas e Valerio) e due del manoscritto ritrovato (Marco e Gigi), condividono l’angoscia amletica del personaggio conradiano: che patisce e non agisce. I quattro discettano sulla questione somala, bevendo vodka americana nella notte afosa, ai bordi della piscina del mitico albergo Thalè. Della poesia e della narrativa somala – soprattutto orale – faceva capolino qualche frammento. «Grazia, grazia che corre
/ sei vento profumato di pioggia ... Muori, gambe di camellina / muori / ah, gambe di camellina, muori», cantavano i misteriosi cacciatori in quell’altra Somalia che è il bush. (Di quel linguaggio e di quella cultura né noi né i nosri studenti cittadini sapevamo niente). «I denari della cooperazione venivano usati per le cose più improbabili, … ma per il funzionamento della luce, del telefono, dell’acqua, soldi non ce n’erano». Un’equipe italiana fece un cofanetto, costosissimo, a testimonianza della crudele infibulazione inflitta alle bambine somale: ma lo ebbero solo i committenti, all’università non fu distribuito. La corruzione dei governanti era iperbolica, non facevano sbarcare gli aiuti per la popolazione se non veniva pagato il baghiish, la tangente. Non è possibile rimuovere la questione somala per sempre, non si può rimanere per sempre senza luce: Lugemalé accende la prima candela. Forse uno storico intervisterà due personaggi–chiave: l’italiano Mino e Cisse, il colonnello somalo che rimase a fare la rivoluzione col fucile più alto di lui.