Quando gli uomini di carta incarnano modelli letterari
Stilos, 13-09-2005, Elena Frontaloni
In un saggio su Borges, Gérard Genot scriveva che «l’interpretazione può diventare essa stessa opera creativa di finzioni e realtà nuove». Lo sa bene l’autore di Lugemalé, e non solo per aver riportato questa frase in una raccolta di studi dedicati a William Golding (La morte del sole, 1979). Dopo aver assiduamente frequentato Conrad da critico (Narciso al buio, 1978) e da tradurre (Il duello, 2002) e dopo aver licenziato un corposo studio di comparatistica sulla figura del cavaliere, Mario Domenichelli ha infatti scritto un romanzo in cui il libero e spesso esplicito riferimento alla grande letteratura, alle sue tecniche narrative e ai suoi archetipi, permette di raccontare con piglio autobiografico e a tratti polemico una vicenda ambientata nella Mogadiscio del 1989.
Valerio, professore universitario presso la Casa d’Italia e voce narrante di Lugemalé, incontra in questo frangente Tomas Malredondo, uno stravagante «gentiluomo» divenuto ricercatore grazie ad uno scritto su quel San Giuliano l’Ospitaliere che tanto impegnò Sartre negli ultimi anni della sua vita («Giuliano è figlio delle tenebre» si legge nell’Idiota di famiglia). Il singolare compagno di avventura conosce a memoria i simbolisti francesi, ama guardare il tramonto, afferrare con le dita gli ultimi raggi del sole, travisare frasi celebri e reinventare citazioni. Invidiabile la sua capacità di nascondersi sotto disparatissimi ruoli e tuttavia palese la condanna a viverne solo uno: quello del «sottratto» che «non sa venire a patti con il dolore». Tomas nutre velleità letterarie e, prima di morire in circostanze poco chiare invia all’amico ormai ritornato in Italia un gruppo di poesie intitolate alla figura di Perceval, il cavaliere che trovò il Graal e non se ne rese conto, continuando a perseguire un’inutile e grottesca ricerca.
A Marcella, una donna conosciuta in Somalia, invierà invece uno scritto in prosa, "Il sole fra le dita", resoconto romanzato della sua permanenza in Africa. Venuto in possesso anche di questo dattiloscritto, Valerio inizierà a scorrerlo, intervallando le pagine dell’amico con i suoi ricordi e mettendo a parte di tutto il lettore, anche della fondamentale insincerità che informa il proprio e l’altrui racconto: «In fondo, tutta quella storia non era vera nemmeno in minima parte. Essa era falsa, falsa fino al midollo. E non perché Malredondo la volesse scrivere falsa, ma preché era lui che vedeva il mondo come falsato, lo vedeva come vedeva me, se stesso, e tutti gli altri: come voleva lui. Ma le cose stanno sempre in modo diverso da come uno se le ri
corda e se le racconta. Io questo lo so bene».
Lugemalé vuole essere dunque parafrasi di ogni «romanzo nel romanzo», e insieme ironico esperimento di narrazione obliqua alla Conrad, immersione in quelle stesse nauseabonde caligini e cangiati luminosità che rendono Cuore di tenebra – la definizione è dello stesso Domenichelli – «la pietra tombale» dell’ideologia imperialista. Perché anche di ideologie, nel romanzo, si parla, e di ideologie ormai svuotate da ogni prospettiva storica concreta, irrimediabilmente intrappolate nei ranghi degli interessi economici. Valerio e Tomas registrano a Mogadiscio gli esagerati entusiasmi e le circospette delusioni suscitati dalla caduta del muro di Berlino. Il primo sottolinea le pecche del «socialismo reale», provocando un’inesauribile e violenta tirata dell’amico sul destino dell’Occidente: «ma non lo vedi che stiamo vampirizzando il mondo [...]? L’orrore nazista, quello stalinista, sono giochi da bambini rispetto a quello che succede in tre parti, anzi in tutto il mondo del libero mercato. Libero mercato, già, perché di libero, in questo sistema, c’è solo il mercato! Pagheremo, mio caro, pagheremo per tutto questo. Non ho dubbi. E intanto viva la Germania unita. Nel frattempo vedrai che qualcos’altro ci dividerà, e ci sarà da divertirsi nei prossimi anni, "Insch Allah Akbar". Meglio l’Islam, allora, con la sua barbarie, come la vediamo noi, che noi con le nostre ipocrisie e i nostri orrori. Noi siamo uno schifo. [...] Ma vedrai che qualcuno, da qualche parte, sta già affilando il palo nel cuore del nostro libero mercato aux esclaves. Chi non ha più nulla da perdere può rischiare tutto. E che dio ci perdoni. Ci perdoni la falsità, la cecità, l’ipocrisia. Ma, cazzo, non c’è nessuno che ci veda chiaro?».
Vitreo il commento di Valerio, che attribuisce ad un insincero «idealismo aristocratico» l’accollarsi di Tomas; misurata e quasi ironica la risposta del generatore di corrente elettrica, che smette immediatamente di funzionare, lasciando nel buio più completo i due amici: «Lugemalé, come dicono qui, luce finita!». Ma quando la luce finisce, e tutto appare com’è – fatto «per niente» – l’uomo si scopre «un cimitero vivente», un ricettacolo involontario di quei morti (il padre e il figlio) che Tomas non vuole ascoltare e che di notte, soprattutto, invadono i suoi sogni. Per questo il «gentiluomo» non desidera dormire, ha il terrore di chiudere gli occhi.
«Non vuoi mica vivere per sempre!» è uno dei motti più ricorrenti nei discorsi di Tomas. Alle prese con il romanzo e le
poesie dell’amico, preda di «giochi» di potere universitari e schiavo di un ego insoddisfatto per pigrizia, senso della realtà e vigliaccheria, Valerio ammetterà nelle battute finali del romanzo: «Bisogna pur vivere». Tanto basti a segnare la differenza fra i due personaggi, entrambi comunque annoverati fra gli «uomini di carta», formati e costretti dagli amati libri a recitare semppre – e spesso involontariamente – improbabili modelli letterari.
La morte di Tomas, ormai identificato con una Somalia dilacerata dal silenzio e dai suoi stessi mali, ha però sconvolto l’esistenza di Valerio e la letteratura del dattiloscritto rimescola perfidamente le carte, perché le due figure che si muovono fra le pagine di Malredondo non sono solo percepibilissime incarnazioni dei suoi variabili umori e principi, ma anche inquieti doppi dell’amico sopravvissuto. Così Mefistofele trasmette la sua «malattia» a Faust; Faust riconosce dentro di sé Mefistofele. E le lunghe notti d’insonnia di Malredondo, gli incubi angosciosi, i rimorsi nei confronti di chi non si è potuto né voluto «salvare» trascorrono gradatamente nella vita di Valerio. Che, come il protagonista della Laguna di Conrad, conclude il suo racconto in un’alba fredda, strappandosi volontariamente al sonno e al sogno di Daabo, la giovane somala amata e poi abbandonata in Africa. Ma il cielo occidentale è coperto, gli uccelli cinguettano quasi minacciosamente, senza posa. S’alza un vento e infido. È lo stesso scenario descritto da Tomas all’inizio del romanzo, quando s’abbandona al ricordo della morte del padre. Valerio non può far altro che «tornare a dormire».
Romanzo a chiave, calderone alchemico di grande letteratura e piccole meschinità, Lugemalé sembra a volte prendersi gioco di se stesso e della penna occidentale che l’ha scritto. La trascrizione del parlato degli indigeni, il rapporto tra Valerio e una biblioteca tirranica, che decide sparizioni e letture, il mescolarsi e confondersi di stereotopi femminili e maschili più o meno animalizzati, tutto contribuisce a descrivere, quasi a documentare davanti agli occhi del lettore le cancrene profondissime di una piccola Europa, che ancora non sa far meno del mal d’Africa. Vissuto, sì, ma che una volta tornati a casa non si può che reinventare. E, in qualche modo, tradire. Una chiave, ancora, per leggere con profitto Lugemalé: lasciarsi irritare dagli sguardi, dalle sillabe e dalle parole che s’incontrano, ogniqualvolta ci si riconosca in uno specchio troppo colto, in una discussione troppo oziosa, in una tirata troppo insincera.