La vita dentro un lager nazista. I racconti di 11 toscani deportati
Metropoli, 05-05-2009, Jacopo Nesti
Con le Parole di Silvio Berlusconi sul valore fondante della Resistenza, l’ultimo 25 aprile ha segnato una netta accelerazione verso una memoria condivisa. Tuttavia esistono ancora delle divisioni, delle ferite che continuano a sanguinare, ma anche delle zone d’ombra su episodi e fatti che rappresentano ancora oggi motivo di dolore. Perciò tornare a volgere il nostro sguardo su quel periodo è un esercizio importante, decisivo tanto per la nostra storia quanto per il nostro futuro democratico; tanto per gli adulti, che pensano di poterne ignorare il valore civile morale, quanto per i giovani che ancora non hanno studiato la barbarie del nazifascismo A questo proposito oggi presentiamo il volume Gli ultimi testimoni – Storie e ricordi degli internati militari nei lager nazisti a cura di Annarosa Bartolini e Emanuela Malvezzi (Edizioni Polistampa, 240 pagine, 16 €). Il libro raccoglie le testimonianze dei reduci piombinesi che l’8 settembre del 1943 vennero catturati e deportati nei campi di concentramento tedeschi, dove rimasero per tutto il periodo della Resistenza fino alla Liberazione.
Scopo della pubblicazione è di conservare il ricordo di chi ha vissuto il dramma bellico e a trasmetterlo con esattezza alle nuove generazioni. Ogni testimonianza affronta in modo originale i temi drammatici della guerra: la fame, il cameratismo e la solidarietà tra compagni e concittadini, la presenza costante della morte, la paura e la nostalgia di casa e della famiglia. Di seguito vi proponiamo una di queste interviste, l’intervista ad Antonio Simoncini. Testimonianza raccolta da Graziano Simoncini (figlio dell’intervistato) il 27 marzo 2007, a Piombino nella loro abitazione.
Ricordi gli anni precedenti l’entrata in guerra, gli anni ‘39-’40?
“Facevo il premilitare obbligatorio a Casino di Terra, nel comune di Guardistallo. Il 5 febbraio 1942 sono venuto a Piombino, mi sono trasferito, non volevo più fare il contadino. Giunto a Piombino non mi presentai al comando dei carabinieri per il premilitare, vennero loro a prendermi. Con Lino, un mio amico, andammo a fare l’istruzione, tutti i sabati dove attualmente è la palestra di via Ferrer; là c’era la sede del fascio”.
Dove ti trovavi il 10 giugno del 1940, il giorno della dichiarazione di guerra?
“Mi trovavo nel comune di Guardistallo, precisamente a Casino di Terra”.
Come hai passato gli anni immediatamente successivi, dal ‘40 al ‘43?
“Fino al 1942 facevo il contadino al Casino di Terra con la mia famiglia: genitori e sorella. Il 5 marzo 1942, una volta trasferito a Piombino, abbiamo preso un orto in località Buca di Bisaccino e iniziammo a fare gli ortolani”.
Ricordi dove ti trovavi il 25 luglio?
“Il 25 luglio 1943 mi trovavo a Roma a fare il coprifuoco al ministero”.
L’8 settembre?
“L’esercito italiano mi portò a Cecchignola, la sera alle venti e trenta – ventuno con un camion. Ci portarono su una collina, c’erano già le trincee. La mattina vennero tre tedeschi, ci disarmarono e ci dissero che potevamo andare a casa. Invece, una volta arrivati alla strada, c’era ad aspettarci l
’esercito tedesco che ci tolse tutto: orologi, eccetera e ci misero in riga, ci portarono a Ostia. I nostri tenenti e capitani non c’erano più. Camminammo tre giorni e tre notti a piedi, e poi ci misero sulla spiaggia sotto la loro sorveglianza. Mangiavamo noccioli di pesca e tutto ciò che si trovava sulla spiaggia. Dopo quattro giorni ci portarono a piedi a Fiumicino e ci caricarono sui vagoni-bestiame, quaranta persone a vagone. Non ci dissero niente. C’erano i tedeschi che ogni tanto sparavano. Qualcuno ha tentato di scappare dai vagoni, ma non ce l’ha fatta. A Firenze hanno fermato il vagone e noi buttavamo i bigliettini con l’indirizzo di casa per far sapere che ci avevano preso i tedeschi. Aprirono il vagone e la gente ci portò l’acqua anche se i tedeschi non volevano. Ci dettero, poi, quattro forme di formaggio e venne a tutti la diarrea. Ripartimmo e fermarono i vagoni in Germania per farci fare i nostri bisogni in alcune fosse che avevano scavato. Il giorno dopo, di notte, ci scaricarono nella Prussia orientale, in una baracca di legno. C’era la paglia come letto e lì ci siamo stati per circa un mese. Non facevamo niente ed eravamo pieni di pidocchi. Da lì ci portarono vicino a Berlino, in un campo di smistamento, dove c’erano anche i campi degli americani e degli inglesi. Ma loro stavano bene, avevano anche i campi da gioco. Ho venduto un portasigarette d’argento che mi avevano regalato a casa ad un inglese per un pezzo di pane. Ci siamo stati quattro o cinque giorni e purtroppo mi separarono da un mio compagno di gioventù. Mi mandarono in un campo di lavoro nel paese di Glatz, e lì mi consegnarono un libro tessera di riconoscimento. Mi misero in un magazzino, che era la nostra casa, dove dormivamo nei letti a castello, al posto del materasso c’era la paglia. La mattina i soldati tedeschi ci portavano alle baracche a spalare la neve, fino a sera. Questo per circa venti giorni. Poi mi trasferirono a lavorare in una fabbrica dove venivano costruiti pezzi di aerei. Una mattina hanno portato cento ragazze ebree dai sedici ai vent’anni, molto belle, con i capelli lunghi. Dopo due ore non le riconoscevamo più perché le avevano rasato completamente i capelli e le avevano messo una tuta a strisce. In pochi giorni morirono tutte. Successivamente gli abitanti di Glatz vennero a chiedere persone per lavorare, chi la terra, chi il pane, ognuno secondo il mestiere che conosceva. Io andai, per un periodo da un contadino che mi veniva a prendere la mattina e mi riportava la sera, almeno mangiavo un po’ meglio, perché in fabbrica o nelle baracche ci davano il rancio che consisteva in acqua cotta con le patate, pochissimo pane. Poi mi ammalai, iniziai a gonfiare, mi portarono all’infermeria dove iniziarono le cure: erano i primi giorni di dicembre. Una sera mi prese un malore, febbre a 41, un infermiere francese mi dette una puntura ed iniziai a riprendermi. Continuai a rimanere nell’infermeria. Un medico tedesco mi disse che potevo scrivere a casa perché per me non c’era più niente da fare, sarei morto. Scrissi allora questa cartolina: “Pensate alla vostra salute che alla mia c’è chi ci ha già pensato”.
Era marzo 1945 ed è arrivata quando sono rimpatriato. Ad un certo punto mi chiamò un’infermiera austriaca e mi chiese se me la sentivo di andare con lei, la sera, mettendomi la divisa da tedesco. Io le risposi sì. Mi vestì e mi portò presso un ambulatorio privato dove mi fecero le radiografie, l’Ecg, mi trovarono una pleurite contratta da ragazzo. Lei parlò con il dottore, io dovevo stare zitto. Una volta tornati in infermeria mi disse che dopo due giorni mi avrebbe fatto rimpatriare, dovevo, però, presentarmi al campo di concentramento di Verona. Invece, una volta giunto al confine, mi chiamarono gli squadristi, mi dettero da mangiare e mi dissero che mi dovevo presentare a Verona. Una volta, però, uscito da questo ufficio trovai un camion diretto ad Udine e salî. Volevo andare a Zoppola, sessanta chilometri da Udine, perché volevo incontrare la famiglia di Mario Zaratini, mio compagno di prigionia. Avevo da consegnargli una lettera scritta da lui. A Udine scesi dal camion e mi trovai davanti ad un bar, entrai, videro che ero stato prigioniero, mi offrirono del latte e cognac per tirarmi un po’ su ed invece mi svenni. Mi caricarono su una lettiga posta in mezzo a due biciclette e mi portarono all’ospedale. Mi accettarono, mi fecero fare il bagno e mi ricoverarono. Passò il professore e mi disse che non mi poteva trattare in quanto c’erano i controlli degli squadristi. Il 16 aprile 1945 mi dimisero, chiesi all’autista di un camion che andava a Zoppola se mi poteva caricare e raggiunsi così la casa dei genitori del mio compagno. Non mi potevano però ospitare in casa, perché c’erano i controlli da parte dei tedeschi e mi fecero dormire su un fienile posto a tetto, la sera trovavo su la scala. Una notte, però, vennero i tedeschi per un controllo e fui costretto, il giorno dopo, ad andare via. Venne una signora che mi portò a dormire dal prete, mentre a mangiare andavo al ristorante del tenente dei partigiani. Dopo tre notti ci fu uno scontro tra partigiani e tedeschi; vinsero i partigiani e la sera arrivarono gli americani che occuparono il paese. Stetti lì altri due giorni e poi presi il pullman e scesi vicino a Ferrara. Da lì raggiunsi Bologna a piedi. Poi trovammo un camion di americani che ci portò a Firenze. Da Firenze con il treno, arrivai a Livorno. Alla stazione trovammo gli americani che ci smistarono. Io presi il treno per Venturina e da qui raggiunsi a piedi Montegemoli. Lì mi fermai da alcuni miei parenti e mi portarono a Piombino con il barroccino. Scesi in piazza Verdi dove aspettai il mio babbo che doveva rientrare dal lavoro: lavorava dagli americani a Baratti. Fu un commovente incontro di fronte a decine e decine di persone. Una volta ci scoprirono a rubare delle patate. Ci portarono in ufficio e ci puntarono la pistola alla testa dicendo che la prossima volta ci avrebbero ammazzato. Una volta fui punito perché la vigilia di Pasqua sciupai un pezzo mentre lavoravo in fabbrica; non mi dettero, per Pasqua, il cibo. I miei amici, però, mi cedettero una parte della loro porzione. Fra noi all’interno del campo, c’era solidarietà. Ci dividevamo tutto quello che ci davano”.