Cari nemici. L’Italia democratica già a pezzi nel ’46
Libero, 24-02-2009, Mario Bernardi Guardi
11 agosto 1944: gli Alleati entrano in Firenze. In città la guerra civile è stata dura. Il 14 aprile, il comunista Bruno Fanciullacci ha assassinato il filosofo Giovanni Gentile, alfiere della pacificazione nazionale. A Firenze c’è comunque aria di nuova Italia. E il Comitato Toscano di Liberazione Nazionale – che è presieduto dallo storico dell’arte Carlo Ludovico Ragghianti – in mezzo quelle sanguinose ferite partorisce “La Nazione del Popolo”, il giorno stesso in cui gli Alleati arrivano in città. Il nome è tutto un programma. Nel senso che la vecchia “Nazione” ha trascinato per troppo tempo il suo nome glorioso nel “fango reazionario, conservatore e fascista”, ed ora è necessario che venga fuori un giornale tutto diverso. Un quotidiano che non sia al servizio di alcun interesse privato e neppure di un partito, ma esprima una “leale collaborazione tra partiti diversi” (come scrive in una documentata storia del giornale Pier Luigi Ballini, Un quotidiano della Resistenza: La Nazione del Popolo, due tomi, euro 42, pp. 744, Edizioni Polistampa).Insomma contro “la Nazione” dei fascisti, viva “La Nazione del Popolo”, libera e plurale voce antifascista; mirabile espressione di concordia (discordante?) tra democristiani, azionisti, comunisti, socialisti, liberali; quotidiano di quel CTLN, che si presenta agli Alleati con il profilo di un potenziale organismo amministrativo, voglioso di funzionare. E magari con una qualche autonomia. Tanto è vero che sbandiera volentieri l’eredità del Comune medievale e non guarda con soverchia simpatia al governo di Roma.
Ci tiene “La Nazione del Popolo”, a far mostra di vocazione al dibattito, forte come è di collaboratori illustri come Barile, Bilenchi, Branca, Calamandrei, Concogni, Cassola, Devoto, Garin, Levi, Luzi, Montale, Pieraccini, Ragghianti, Saba, Salvemini, Spini, Sturzo. Tutta gente che ha una storia e che più che m
ai l’avrà nel dopoguerra, nei ranghi della cultura e della politica antifascista.
Anche se qualcuno di loro potrebbe ben figurare nella schiera dei “redenti”, per usare un’espressione di Mirella Serri. A partire da Romano Bilenchi, amico e collaboratore del superfascista – ancorché “eretico” – Berto Ricci, fondatore dell’“Universale” morto volontario in Africa nel ’41.
Comunque, adesso Bilenchi è capo redattore responsabile della “Nazione del Popolo” (direttore Piero Compagno, condirettori Alberto Albertoni, Vittore Branca, Carlo Levi, Bruno Sanguinetti e Vittorio Santoli) e scrive fior di articoli per celebrare le donne che hanno combattuto nel Gap, accanto agli uomini, seminando bombe tra fascisti e tedeschi e affrontando con indomito coraggio persecuzioni e torture. Transitate dal fascismo all’antifascismo, le icone plebee, nazionalpopolari e rivoluzionarie della “fiorentinità” care a Bilenchi continuano a fare la loro bella figura.Ma sul giornale c’è davvero di tutto: e non può essere diversamente, visto che collaborano liberali e stalinisti, democristiani e socialisti riformisti, marxisti doc e cattolici cristiani altrettanto doc. E che si dibatte di argomenti sempre “scottanti”: i Comitati di Liberazione (quale il loro destino: organismi democratici o soviet ?), l’atteggiamento degli Alleati nei confronti dell’Italia (Viva i liberatori certo, ma perché non ci rispettano? Perché – Churchill in testa – continuano a far ricadere su tutti gli italiani la responsabilità del fascismo? Perché diffidano dei partigiani? Perché non ci assegnano un vero ruolo di cobelligeranti nella lotta contro fascisti e tedeschi?), la legalità e la violenza giustiziera (c’è il comunista Carlo Levi che inneggia a Piazzale Loreto – “gli uccisori di Mussolini hanno compiuto un’opera storicamente e moralmente
, e direi quasi esteticamente perfetta” –, mentre il socialista Giovanni Pieraccini, a muso duro, dice che certe violenze compiute dai partigiani – ad esempio la strage di Schio – sono roba bestiale), la Monarchia e la Repubblica, la costituzione presidenziale e quella parlamentare, l’unità nazionale e le autonomie regionali, l’idea di patria e quella di Europa, l’epurazione, il voto alle donne, i rapporti tra Chiesa e Stato, la scuola e l’Università, la situazione delle popolazioni giuliane e di Trieste, i codici fascisti, la futura organizzazione dell’economia (liberale o sociale? Magari socialista...) e delle istituzioni (quale democrazia?).
Nelle riunioni di redazioni ci si appiglia : Stalin è faro di libertà come Inghilterra e Stati Uniti? Ha ragione Ciang Kai Scek o Mao Tse Tung? Tito è un bravo “compagno” o un assassino? E perché i Sovietici hanno massacrato a Katyn la classe dirigente polacca? Sarà stata anche stimolante, operosa e creativa la concordia discors che regna nel giornale, e a cui la Regione Toscana che ha voluto questo pubblicazione, rende omaggio, ma era cosa che non poteva durare. La guerra e il dopoguerra definiscono nuovi ordini fatti di dure contrapposizioni. Il giornale chiude i battenti il 3 luglio del ’46.Cosa troviamo oggi rileggendolo? Beh, verrebbe voglia di dire la forza e la debolezza di una, cento, mille illusioni che per una breve stagione convissero, confliggendo. Insieme a tante curiosità. Ad esempio, gli articoli di un Montale che scrive di critica teatrale e pubblica anche qualche lirica, ma prova anche ad occuparsi di politica. E tuttavia non sa come farlo, perché è un bravo borghese, liberale e fondamentalmente conservatore, ma non vuol dare noia a nessuno, meno che mai ai “compagni”, e allora finisce coll’essere ambiguo e criptico. Nel senso che continua a dirci ciò che “non” è e ciò che “non” vuole.