Affittasi
L’Indice, 01-12-2008, Antonio Pane
Sullo scorcio del 1966, Antonio Pizzuto scrisse alla nipotina Cecia, allora dodicenne, un biglietto in cui affettuosamente le rimproverava l’“insana” passione per il rock: “Ti prego di badare alla Mamma, che viene prima di tutti i Beatles del mondo!”. Quarantadue anni dopo, deposto il nomignolo familiare, Cecia-Giovanna rileva il testimone del nonno, esordendo con un breve romanzo imperniato proprio su quella passione, ora avvinta ai suoni di Bruce Springsteen.
Le canzoni del Boss – essenziali nella trama di Affittasi, perché la attraversano in lungo e in largo, dall’epigrafe allo struggente congedo, essendo l’humus che nutre le affinità elettive dei protagonisti – sembrano anche dettare, con ritmi da ballata “dura”, il tempo stesso del racconto, scandito sulle immagini-tema continuamente riprese e variate del “rosa shocking” che esprime il desiderio di vivere e della nausea che addensa il richiamo della morte. E l’aggressivo colore – che investe di volta in volta il rossetto e il maglione di Marina, la Lacoste di Giuliano, i gerani sul terrazzo, le roselline selvatiche del corteggiamento, ed è infine riassunto dalle “impron
te rosa incancellabili” invocate da Marina morente – sembra un omaggio segreto a Signorina Rosina, l’opera pizzutiana in cui il nome-titolo “indossa” a piacere le più diverse epifanie.
Aperto da un arioso riquadro dove si accampa l’eponimo quanto galeotto annuncio di locazione, Affittasi traccia con bella agilità, in ventisette rapide o rapidissime sequenze, la parabola di un amore assoluto, sognante, romantico, quasi da fiaba. La vicenda, detta in prima persona, come in Sunset Boulevard, da una voce d’oltrevita, è sobriamente affidata a tre principali attori: i due innamorati, Marina e Giuliano, e la “tata” dell’uomo, Maria, che con le sue sapide battute in palermitano (un po’ alla Camilleri) ne rappresenta la contromisura “comica”. I punti di forza del testo sono il passo incalzante, a folate (che riverbera il batticuore, la piena dei sentimenti), la concisa vivacità dei dialoghi e soprattutto gli “a parte” quasi gridati di Marina, sorta di molto siciliano monologo esteriore a regime interiettivo che ne restituisce a meraviglia le ansie, i soprassalti, le proteste. Meno invece persuade il frequente parlare di emozioni, qu
ando sarebbe stato preferibile rappresentarle; e piuttosto incongrua risulta, per un personaggio fino a quel punto senza storia, la anamnesi di Marina che fa risalire il proprio malessere a certi trascorsi nel movimento studentesco.
Le saltuarie défaillances, addebitabili più che altro a un difetto di “mestiere”, non bastano tuttavia a pregiudicare la felicità della prova, che denuncia una vocazione sicura, un dono affabulatorio da ricondurre forse, insieme all’istinto umoristico e al viscerale commercio con la musica, ai geni dell’illustre congiunto. Assai ben condotta appare, ad esempio, la suspense che accompagna il progressivo svelarsi del passato di Giuliano, o la “moviola” che segue Marina nel dormiveglia, a esplorare la mano dell’amato. E resta nella memoria la cechoviana sparutezza della piccola degente: “Nell’ultimo letto in fondo sta disteso un pigiamino verde, dalla manica della giacca esce una specie di legnetto al quale è attaccata miracolosamente una flebo, più in alto vedo, al posto della faccia, una maschera scavata, ‘color della livida petraia’, con due fessure per gli occhi, una per la bocca e due buchi per il naso”.