Quando la Toscana era terra di balene
Metropoli, 03-02-2009, Jacopo Nesti
Giorgio Batini ci porta indietro nel tempo, quando eravamo sott’acqua, popolati da balenottere e squali giganti. Il nostro “ricercatore di storie” si cimenta con antiche ere geologiche, cataclismi, glaciazioni, terremoti e inondazioniCi sono storie che risalgono a prima della Storia. Che non sono scritte dalle parole ma affiorano dalla terra, raccontate da segni specialissimi: i fossili. Sui loro ritrovamenti sono state ricostruite vicende antichissime, milioni e milioni di anni fa, quando la Toscana era giovanissima e irriconoscibile, quando era – con un’antitesi efficace – terra di mare. In un senso geologico, letterale, ovvero che molte sue lande erano fondale marino, di un mare che penetrava molto all’interno dell’attuale linea di costa. Il fascino di questa remota epopea dei mari non poteva non affascinare lo scrittore e giornalista Giorgio Batini, il cui amore per la sua regione lo ha spinto a seguire le rotte più disparate della sua infinita storia. Non poteva dunque rimanere indifferente a questi lacerti di passato che riemergevano misteriosi e fecondi dai campi e nei prati, negli scavi di paleontologi professionisti o dilettanti. In questo libro edito da Polistampa – di cui di seguito presentiamo il primo capitolo – il nostro “ricercatore di storie” si cimenta così con antiche ere geologiche, cataclismi, glaciazioni, terremoti e inondazioni. E con le specie animali che popolarono i mari della Toscana la cui esistenza è giunta a noi proprio attraverso i numerosi reperti fossili: squali mastodontici, cetacei grandi e piccoli, fra cui enormi balenottere e giganteschi capodogli, all’epoca gli unici turisti a visitare una Toscana sommersa dove c’era molta più acqua che terra.In un giorno lontano, mentre cercavamo alcune memorie dell’antica storia toscana, scoprimmo, sotto i nostri piedi, le testimonianze di una storia molto più antica, una storia che l’uomo non aveva mai scritto semplicemente perché ancora non esisteva, e se anche fosse esistito, non avrebbe saputo scrivere. Parafrasando una celebre frase – e chiedendo scusa al grande evangelizzatore di Tarso – vorremmo poter dire che restammo folgorati sulla via di Semifonte, la città fantasma della Toscana. Una città guerriera che dopo avere sfidato con le sue “cavallate” la sorgente potenza comunale di Firenze, ne era stata punita.
I fiorentini, dopo averla assalita, rasa al suolo e incendiata nel 1202, avevano dichiarato “maledetto” il terreno su cui era sorta, ed avevano decretato che nessuno avrebbe potuto più murarvi anche un solo mattone. Soltanto dopo circa quattro secoli, un granduca mediceo aveva permesso di costruire sul pianoro maledetto una cappella ottagonale in onore di San Michele (con una cupola che era un ottavo di quella brunelleschiana di Santa Maria del Fiore) che i contadini della zona di Barberino presero a chiamare “il Duomo
della Val d’Elsa”.
Poi trascorsero altri secoli, e nei primi anni della seconda metà del ’900, alcuni studiosi fiorentini violarono l’interdizione del XIII secolo e iniziarono ricerche sul suolo e nel sottosuolo dello storico pianoro per scoprire superstiti ruderi, e capire com’era fatta la città che aveva suscitato così tanta paura nei fiorentini da farla radere al suolo perché non risorgesse mai più. Anche a noi capitò di percorrere in lungo e in largo il terreno tabù – ormai un poggio campestre coltivato a vigne e oliveti – per fare la cronaca di quegli studi e delle ipotesi avanzate dai ricercatori. E in un giorno lontano ci capitò, appunto, di restare “folgorati sulla via di Semifonte”, più precisamente su uno “stradello” che era stato aperto dai contadini “affettando” il terreno di un podere, per cui procedeva diritto verso una superstite casa colonica tra due pareti di terra. Lo stradello non era frutto di uno scavo ordinato dalla Soprintendenza, ma probabilmente da un fattore, ed era stato aperto dai coloni con la zappa, la marra, la vanga, come si fa uno scasso per piantare una vigna: e magari quello scasso era vecchio, risaliva ai tempi della fillossera e delle viti americane.
Percorrendo il sentiero tra i campi, guardavamo quelle pareti di terra cercando di scoprirvi una pietra, un mattone, un pezzo di grata di ferro arrugginita dai secoli e dalle intemperie, un frammento di storia, ed eravamo pervasi da una grande commozione perché intorno a noi erano le memorie di una Toscana antica, perché eravamo circondati dai suggestivi cimeli di un tempo davvero remoto. Ogni tanto capitava d’intravedere nel terreno una pietra sbozzata, forse un ricordo della città fantasma, forse appartenente a un torrione, a un bastione murato. Se davvero si trattava di cimeli di Semifonte, faceva impressione pensare che Dante sarebbe nato almeno sessant’anni dopo, e che si trattava di roba del tempo di Alighiero, anzi di Bellincione.
E intorno allo stradello un assordante silenzio che scaturiva dal pianoro maledetto, dal terreno tabù, un silenzio fatto di mille clamori, di mille ferri che cozzavano, di mura che crollavano, di spade e di lance che trapassavano, impietose, le armature e le carni, di moribondi che imploravano pietà, di donne e bambini che invocavano aiuto, intrappolati nelle case incendiate. Poi, all’improvviso, la vedemmo.
All’improvviso vedemmo, sotto una pietra annerita, una pietra bianchissima, quasi lucente. Ma non era una pietra. Era una conchiglia. Era un fossile.
Da prima ci sembrò incredibile, assurdo, trovare quella pietra madreperlacea in un poggio così lontano dal mare, e cercammo d’immaginare in quale luogo un semifontese giramondo l’avesse mai potuta scoprire, e in quali drammatiche circostanze del “Delenda Semifonte” e dell’ass
alto fiorentino, l’antica conchiglia fosse finita in quel campo. Ma poi ci accorgemmo che nella terra scura dello stradello facevano spicco altre pietre bianche. E infatti trovammo un’altra conchiglia. Poi un’altra ancora. Il pianoro era disseminato di fossili marini.
Restammo folgorati sulla via di Semifonte. Quelle, sì, che erano memorie di una storia antichissima, di vicende straordinariamente remote che nessuno aveva raccontato perché forse, se c’era la Toscana, non c’erano ancora i toscani. Altro che vassalli imperiali e liberi comuni, altro che “cavallate”! Si trattava, casomai, di cavalloni. Quel pianoro era stato un fondale tirrenico, e quello che aveva bagnato la Val d’Elsa era stato il Mediterraneo. Intorno a noi, accanto a noi, sotto a noi, era l’infanzia della Toscana.
Difficile capire l’età di quelle conchiglie: forse migliaia di anni, forse milioni. Restammo affascinati a guardarle, provando quasi un senso di colpa perché per una vita ci eravamo occupati – con un orgoglio regionale, ereditato, nutrito, fatto crescere a dismisura – di storie che ora ci apparivano come storielle, ed ed avevamo tralasciato la vera grande storia della nostra terra, ignorandone le radici, trascurando di domandarci come si era formata quella montagna, quella valle, cosa c’era stato su quel poggio prima dello scuro corteo dei cipressi, prima dell’accendersi di cento papaveri nel biondeggiare del grano.
Ci eravamo occupati per una vita di eventi e personaggi che ci erano sembrati appartenenti a tempi remoti, regolando il tempo sull’era cristiana (gli anni a.C. e d.C.), sul calendario romano (ab urbe condita), sul Medioevo, sul Rinascimento, considerando come fatti epocali, svolte storiche, la caduta dell’impero romano, o la scoperta dell’America, e all’improvviso ci eravamo accorti che certi eventi si erano svolti “appena ieri”, e che il reale calendario della Terra non divideva il tempo in giorni, settimane, mesi, ma in decine di milioni d’anni. La storia dell’uomo era in definitiva una storia “moderna”, una piccola e recentissima porzione della storia della Terra sulla quale viviamo.
Fu proprio sulla via di Semifonte, di fronte a quella bianca fiaba rimasta celata nel terreno di un podere, poi “affettato” da uno stradello, che ci rendemmo conto dell’esistenza di una Toscana che avevamo trascurato – nonostante fosse appena sotto i nostri piedi –, di una Toscana ben più antica delle urne biconiche trovate nel cuore di Firenze, delle mura ciclopiche di Roselle, degli ottocento Orsi Spelei che avevano sonnecchiato nella “tecchia” di Equi Terme.
Le faide comunali erano faccende recenti, la Piazza dei Miracoli era roba moderna, il Campanile di Giotto un ragazzino.
C’era una Toscana nella quale avevano navigato le balene, ed avendola scoperta, decidemmo di raccontarla.