Da Barzini al barzinismo
Il Sole 24 Ore, 28-12-2008, Raffaele Liucci
Luigi Barzini (1884-1947) è stato il padre di tutti gli inviati speciali italiani. Spedito dal “Corriere della Sera” sulla scena dei principali eventi del Novecento (la rivolta dei “boxer” in Cina, il conflitto russo-giapponese, il raid automobilistico da Pechino a Parigi, il terremoto di Messina, la guerra di Libia, la rivoluzione messicana di Zapata, la Grande Guerra), ha coniato uno stile giornalistico inconfondibile, terso, diretto, incalzante, sfrondato dagli orpelli allora in voga. Forse non tutto quel che narrava era sfilato davanti ai suoi occhi, eppure le sue cronache erano sempre verosimili, perché nel 1912 Giuseppe Prezzolini intonò un ironico epicedio del “barzinismo”: “Oggi tutti i giornali hanno il loro Barzini. Leggete le pagine di corsivo che si stampano quotidianamente da Tripoli e dacché restituivano la giusta prospettiva di un avvenimento storico. Il successo (anche all’estero) fu tale da Rodi, da Derna e da Bengasi. C’è sempre un eco di Barzini. E perciò non lo leggiamo più volentirei. È un monopolio che cessa: un’industria che è nata”. Enzo Magrì ne ripercorre ora le leggendarie peregrinazioni, intrecciandole con i fitti scambi epistolari rinvenuti presso l’Archivio centrale di Stato. Carteggi con la moglie, la scrittrice Mantica Pesavento, cui il marito scrive da ogni parte del mondo, svelando i retroscena
dei suoi reportage. E carteggi con Luigi Albertini, che lo aveva scoperto e lanciato alla fine del ’800. Il direttore del “Corriere” è scorbutico, paternalista, asfissiante; pontifica, addirittura, sulla vita privata del suo inviato. Ma Barzini ha bisogno di qualcuno che lo indirizzi e gli dia il proprio consenso. Una decisione reciproca, che non s’incrinerà neppure nel dopoguerra, davanti all’avvento di Mussolini. Ancora nel giugno del ’23, quando Barzini è ormai fascista convinto, mentre Albertini è sempre più sotto il fuoco delle fila delle camicie nere, riceve da quest’ultimo una confessione intima e lacerante: “Attraverso i giorni più duri e difficili della mia vita. Non mi preoccupano i rischi che corro personalmente, ma quelli che corre l’incolumità fisica del giornale. L’intimidazione continua ci paralizza e ci umilia infinitamente”. Intanto, nel ’22, Barzini aveva abbandonato via Solferino, per andare a dirigere a New York il “Corriere d’America” (1923-1928). Ma sarà un flop. Dopo le dimissioni forzate di Albertini (fine ’25), cercherà invano di sostituirlo alla direzione del “Corriere” (uno dei suoi crucci). Tornato in Italia nel ’31, è dapprima direttore del “Mattino” di Anpoli, poi dal ’34, inviato del “Popolo d’ Italia”, per il quale coprir&agr
ave; la guerra di Spagna e il fronte russo durante la Seconda Guerra Mondiale. Ma ormai Barzini era diventato la caricatura di se stesso. La sua prosa asciutta e cristallina s’era fatta melmosa e retorica. Non era più il tempo delle pene soliste, aveva proclamato nel ’28 il capo del fascismo in un discorso tenuto ai direttori dei giornali. E Barzini dovette recitare un imbarazzante mea culpa: “Sono riconoscente al Duce per aver condannato il “barzinismo” che è il mio peggio nemico. Le direttive che egli ha dato alla Stampa costituiscono la miglior lezione di giornalismo che io conosca”. Tappa finale della sua carriera a servizio di Mussolini, la presidenza dell’agenzia Stefani (marzo ’44). Ma forse, nel crepuscolo della Rsi, accetta la nomina nell’illusoria speranza di salvare il figlio Ettore, deportato a Mauthausen. Gli ultimi mesi della sua vita, nel ’47, li passerà in un sottotetto di via Solferino, sfogliando le vecchie collezioni del “Corriere”, alla ricerca di spunti per scrivere la propria autobiografia, uscita in sordina a puntate su “Oggi”. Un epilogo maliconico, cui Orio Vergani riserverà parole colme d’amarezza: “Egli portava con sé la tristezza del nostro mestiere, che accumula migliaia e migliaia di pagine sulle quali scende la polvere che nessuno si cura di smuovere. Tutto il modo di Barzini era in un buona parte distrutto”.