Rosso sangue
Caffè Michelangiolo, 01-12-2008, Zeffiro Ciuffoletti
La vocazione di Paolo Buchignani è la storia, ma più come genere letterario che come disciplina fornita di un suo statuto. Del resto anche io credo che la storia non sia un mestiere esclusivo e solo qualche accademico saccente può credere cha la storia sia una scienza riservata agli specialisti. Tuttavia, Buchignani è uno storico che conosce gli attrezzi del mestiere e anche molto bene come dimostrano i suoi lavori dedicati alle avanguardie rivoluzionarie e all’ideologia fascista. A ben guardare, però, anche in questi suoi ponderosi studi il campo che egli predilige è quello dell’ideologia o ancor meglio il ruolo degli intellettuali nelle grandi e contrapposte ideologie totalitarie del ‘900 il fascismo e il comunismo. Buchignani è affascinato dagli interpreti consapevoli ed estremi delle ideologie rivoluzionarie, scrittori, intellettuali, artisti portatori di una visione specifica vitalistica, religiosa ed estetica della politica. Già in queste scelte c’è qualcosa che non rimanda al fascismo in sé come movimento e poi regime, come storia di un fenomeno nel contesto della crisi dello stato liberale e dell’Europa fra le due guerre mondiali, quanto al fascismo come mito della rivoluzione che colpisce prima delle masse gli irresponsabili costruttori di miti, spesso vittime delle loro stesse pulsioni rivoluzionarie vissute con coerenza e intransigenza, al di sopra di quel grande terreno di mediazione che è sempre, anche nei totalitarismi, la realtà della politica e del contesto storico. Come, ormai, una vasta letteratura internazionale ha dimostrato, sviluppando le grandi intuizioni di Raymond Aron sulle ideologie del Novecento come fedi secolarizzate, il mito della ri
voluzione è stato la patologia del Novecento. Un mito, che sfugge alle categorie di destra e sinistra, che anzi trasmigra con facilità da una parte all’altra, ma che coinvolge gli intellettuali, le élite prima ancora che le masse. Fu un fenomeno non solo italiano, ma europeo, solo che l’Italia per la sua specifica storia, può essere presa a modello per studiare le trasmigrazioni degli intellettuali dall’estrema sinistra al fascismo e dal fascismo rivoluzionario, antiborghese e totalitario, al comunismo altrettanto antiborghese, illiberale e totalitario. Nelle tragedie della grande guerra i miti e le mitologie rivoluzionarie latenti nell’Europa della fine dell’Ottocento e dei primi del Novecento presero corpo. Una larga parte dell’intellighenzia europea si convinse che il liberalismo, il capitalismo, la democrazia parlamentare avevano frantumato e corrotto la società, distrutto le basi comunitarie e le fibre morali dell’individuo. Non solo occorreva cambiare lo Stato, l’economia, la politica, ma occorreva cambiare l’uomo e rifondare la società: un uomo nuovo e un ordine nuovo. Per questo scrittori, giornalisti, poeti, artisti, giovani acculturati, profeti armati e disarmati, non solo vissero la guerra come tragedia di purificazione e “necessità morale”, come scrisse Thomas Mann, ma ne uscirono con l’idea di fondare una nuova civiltà, una sorta di società perfetta pensata in chiave etica ed estetica secondo il tipico armamentario delle costruzioni mitologiche, di cui si servirono le ideologie politiche e i leader carismatici che le incarnarono. Furono, per questo, gli intellettuali più attivi e vitali cooperatori alla costruzione prima de
ll’attesa messianica della rivoluzione, poi del consenso ai regimi totalitari. Attivi costruttori, quindi, del “secolo delle idee assassine”, per parafrasare il titolo di un recente libro dello storico inglese Robert Conquest. Le masse fornirono le schiere di seguaci, ma anche la carne da macello per le guerre e le rivoluzioni. I fini delle ideologie potevano essere diversi nel fascismo o nel comunismo, ma i mezzi potevano coincidere perché qualsiasi mezzo, violenza, terrore, morte era utile alla grandezza del fine. In questo romanzo storico, fatto di racconti legati dal dolore e dalle sofferenze delle vittime, Buchignani ritaglia una serie di vicende individuali di fanatismo ideologico e di sangue, che non potevano trovare «spazio all’interno di un saggio scientifico», come egli scrive nella nota finale. Fascismo e comunismo, guerre e rivoluzioni, speranze e passioni, tragedie e miserie incarnate da donne e uomini, gente del popolo e intellettuali, bruciati nel “delirio ideologico” del XX secolo fino alla sbornia del ’68 e agli albori del terrorismo. Come ha scritto molto bene Mario Graziano Parri, Buchignani con questi racconti cerca di illuminare «la collisione della storia colle esistenze individuali e le ferite tuttora aperte nella carne viva del XX secolo». Miti e sangue, utopie e carne umana, la politica come voragine del pensiero e come delirio di onnipotenza. Una politica, scrive Buchignani, riferendosi ai giovani sessantottini che era «una religione: una religione laica, severa e fanatica, che ci prometteva il paradiso in terra» (p. 97). La storia, forse, non insegna nulla, ma anche la letteratura non è detto che ci possa salvare dai costi umani di una replica della storia.